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Isaac Deutscher: Tre correnti nel comunismo (1964)

Vi propongo la traduzione di un articolo dello storico Isaac Deutscher pubblicato sul numero I/23 della New Left Review nel gennaio-febbraio 1964. Isaac Deutscher è stato un intellettuale assai importante nel dopoguerra in quanto incarnò una posizione assai critica verso lo stalinismo ma senza mai abbandonare un punto di vista marxista. Per questo divenne un punto di riferimento per la “nuova sinistra”. Ebreo polacco nacque vicino a Cracovia nel 1907. Inizialmente poeta e giornalista letterario, si unì al Partito Comunista Polacco, allora fuorilegge, nel 1926 e rimase attivo fino alla sua espulsione nel 1932 (raccontò la storia del partito in un’intervista a Karol sulla rivista di Sartre). Si trasferì a Londra nel 1939, poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, per intraprendere una brillante carriera giornalistica. Nel 1946 decise di diventare storico freelance, scrivendo numerosi libri, tra cui i tre volumi della ormai classica biografia di Trotsky. Segnalo un articolo di Luciano Canfora su Deutscher. Su questo blog trovate altri articoli di Deutscher: L’ebreo non ebreoL’ultimo dilemma di Lenin e altri ne seguiranno. 

Tengo a precisare una questione terminologica fondamentale. L’articolo del 1964 Deutscher – come divenne normale dagli anni ’20 in poi – fa riferimento usando il termine comunismo ai partiti della Terza Internazionale, cioè alla distinzione novecentesca tra comunismo e socialdemocrazia che seguì la Rivoluzione d’Ottobre e la scelta di Lenin di cambiare nel 1918 la denominazione del partito russo per marcare la distanza dagli altri partiti socialisti e socialdemocratici. Nonostante vi fossero piccolissime minoranze eretiche comuniste (bordighiani, trotzkisti, consiliaristi, ecc.) fino al 1956 e ai primi anni ’60 con il termine movimento comunista si intendevano i partiti che erano stati del Comintern e che negli anni dello stalinismo avevano mantenuto il legame con Mosca. Sul tema consiglio la lettura di Eric Hobsbawm. Successivamente con la “nuova sinistra” e la esplicitazione anche all’interno del comunismo novecentesco di visioni e prospettive assai diversificate l’uso del termine comunista ha assunto un’accezione più ampia e non più coincidente con l’identificazione con il marxismo-leninismo del PCUS. Nel terzo millennio credo che bisogna restituire alla parola comunismo una dimensione storica di lunga durata e come minimo definirlo come l’insieme di movimenti che hanno avuto origine dal Manifesto di Marx e Engels del 1848 ma la parola già circolava e i due giovani rivoluzionari la raccolsero dagli operai francesi e già terrorizzava le classi dominanti. Per Marx il comunismo moderno apparve durante le rivoluzioni borghesi come tendenza più conseguentemente democratica. Va ricordato che dai tempi di Marx e Engels fino al 1918 i due termini socialismo/comunismo e la qualifica di socialisti/socialdemocratici/comunisti venivano usati come sinonimi. Per questo considero mistificante la sentenza di “morte del comunismo” che è diventata narrazione dominante dopo l’implosione di regimi del socialismo di stato nell’est europeo. Per esempio in Italia noi che ci opponemmo alla liquidazione del comunismo lo facemmo sulla base del rifiuto della riduzione della nostra storia allo stalinismo e al modello autoritario e iperstatalista che ne derivò e alla difesa della originale elaborazione dei comunisti italiani ispirati dall’opera di Antonio Gramsci. Fu Lucio Magri nel 1990 che precisò molto bene in quale senso la nostra rifondazione si dice comunista (il suo libro ‘Il sarto di Ulm’ rimane ancora il migliore sulla storia del PCI e continuo a consigliarlo vivamente). Buona lettura!  Continue reading Isaac Deutscher: Tre correnti nel comunismo (1964)

Grace M. Cho: Le distorsioni morali della narrazione ufficiale della guerra di Corea

Gli eventi del 25 giugno segneranno il 75° anniversario dell’inizio della guerra di Corea, ma la verità è che gli Stati Uniti furono complici volontari di omicidi di massa in tutta la penisola. Da The Nation un articolo di Grace M. Cho, coreano-americana professoressa di sociologia al College of Staten Island CUNY e autrice di Tastes Like War e We Will Go to Jinju: A Search for Family and the Hidden Histories of the Korean War. Buona lettura! 

Nel luglio del 1950, le truppe sudcoreane giustiziarono migliaia di persone nei pressi di Daejeon, in Corea del Sud. Ufficiali statunitensi assistettero e fotografarono quello che divenne noto come il massacro di Daejeon. (foto US Army)

Quest’anno ricorre il 75° anniversario dell’inizio ufficiale della Guerra di Corea, nota negli Stati Uniti come “la Guerra Dimenticata”, eppure la maggior parte degli eventi commemorativi non farà altro che rafforzare la nostra dimenticanza attraverso una narrazione distorta. La narrazione è più o meno questa: 

Il 25 giugno 1950 iniziò la guerra di Corea quando la Corea del Nord attraversò il 38° parallelo e invase la Corea del Sud. Fu un atto sfacciato di aggressione comunista, un attacco a sorpresa non provocato contro una nazione democratica indipendente, che spinse il presidente Harry Truman a convocare una riunione d’emergenza con le Nazioni Unite per autorizzare l’invio di forze statunitensi in Corea. Sebbene la guerra si sia conclusa in una situazione di stallo il 27 luglio 1953, le forze dell’ONU guidate dagli Stati Uniti, insieme alle forze sudcoreane, riuscirono a contenere il comunismo e a salvaguardare la libertà sia nella Corea del Sud che negli Stati Uniti.

La verità è, tuttavia, che la Corea del Sud – la nazione che gli Stati Uniti e le Nazioni Unite avevano istituito nel 1948 dopo un’occupazione americana di tre anni – non era democratica; era un brutale stato di polizia che sarebbe diventato democratico solo dopo quattro decenni di lotte popolari. Il suo primo presidente, Syngman Rhee, aveva anche pianificato di attraversare il 38° parallelo con un’invasione armata nei mesi precedenti il ??25 giugno. Le aspirazioni di Rhee non erano affatto un segreto. Furono pubblicizzate sui giornali sudcoreani e Rhee implorò gli Stati Uniti di finanziare il suo sforzo bellico. Ma nei media statunitensi, la censura era all’ordine del giorno. Il New York Times , ad esempio, soppresse volontariamente la notizia che la Corea del Sud stava pianificando di attaccare il Nord.

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John Bellamy Foster: La dottrina Trump e il nuovo imperialismo MAGA

Il drammatico cambiamento dell’imperialismo statunitense sotto la presidenza di Donald Trump, sia nel suo mandato iniziale che ancor più in quello attuale, ha creato enorme confusione e costernazione nei centri di potere istituzionali. Questa improvvisa alterazione della politica estera statunitense si manifesta nell’abbandono sia dell’ordine internazionale liberale costruito sotto l’egemonia statunitense dopo la Seconda Guerra Mondiale, sia della strategia a lungo termine di allargamento della NATO e di guerra per procura con la Russia in Ucraina. L’imposizione di dazi doganali elevati e il mutamento delle priorità militari hanno messo gli Stati Uniti in conflitto persino con i loro alleati di lunga data, mentre la Nuova Guerra Fredda contro la Cina e il Sud del mondo si sta accelerando.

Il cambiamento nella proiezione di potere degli Stati Uniti è così radicale e la confusione che ne è derivata è così grande che persino alcune figure da tempo associate alla sinistra sono cadute nella trappola di considerare Trump un isolazionista, antimilitarista e antiimperialista. Per questo, il disamorato esponente della sinistra Christian Parenti ha sostenuto che Trump “non è un antiimperialista in senso lato. Piuttosto, è un istintivo isolazionista dell’America-First”, il cui obiettivo, “più di qualsiasi altro presidente recente”, è “smantellare l’impero globale informale americano” e promuovere una nuova politica estera “antimilitarista” “in opposizione all’impero”. (1)

Tuttavia, lungi dall’essere anti-imperialista, il cambiamento globale nelle relazioni esterne degli Stati Uniti sotto Trump è dovuto a un approccio ipernazionalista al potere mondiale, radicato in settori chiave della classe dirigente, in particolare nei monopolisti dell’alta tecnologia, così come nei sostenitori di Trump, in gran parte appartenenti alla classe medio-bassa.

Secondo questa prospettiva neofascista e revanscista, gli Stati Uniti sono in declino come potenza egemonica e minacciati da nemici potenti: il marxismo culturale e gli immigrati “invasori” dall’interno, la Cina e il Sud del mondo dall’esterno, mentre sono ostacolati da alleati deboli e dipendenti.

A partire dalla prima amministrazione Trump dopo le elezioni del 2016, il regime si è schierato a favore di una netta svolta a destra, sia a livello internazionale che nazionale.

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NATO: l’organizzazione più pericolosa sulla Terra

La NATO è l’unico vero blocco militare al mondo, il cui mandato e le cui ambizioni si estendono ben oltre l’Atlantico settentrionale e, di fatto, costituiscono la più grande minaccia alla pace mondiale.

Dossier di Tricontinental Institute For Social Research, Zetkin Forum, No Cold War. 

L’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) afferma di trovarsi ad affrontare la più grande crisi esistenziale dei suoi quasi ottant’anni di storia. Mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il suo team per la sicurezza nazionale hanno – in apparenza – voltato le spalle all’Europa e dichiarato che non pagheranno più per la sua sicurezza, i leader della regione si affannano a raccogliere fondi per aumentare il loro sostegno alla guerra in Ucraina e rafforzare la propria produzione e capacità militare. Eppure, non vi è stata alcuna indicazione concreta che gli Stati Uniti, che sono la forza dominante nella NATO, si ritireranno da questo strumento militare o cercheranno di scioglierlo. La NATO serve una vasta gamma di scopi per gli Stati Uniti e lo fa fin dalla sua fondazione nel 1949. Fare pressione sugli stati europei affinché paghino di più per la propria difesa è una cosa; scambiare questo per un più ampio ritiro strategico degli Stati Uniti dall’Europa è un’altra. Nonostante la retorica, ciò che Trump sta facendo non è al di fuori dell’approccio generale dell’élite statunitense: mantenere il potere globale attraverso strumenti come la NATO e un sistema statale europeo flessibile, anziché isolare gli Stati Uniti dietro gli oceani Atlantico e Pacifico. La NATO rimarrà uno strumento di potere del Nord del mondo, indipendentemente dagli inevitabili ostacoli superficiali del periodo a venire.

Il titolo di questo dossier, NATO: l’organizzazione più pericolosa del mondo, è in linea con il giudizio del politologo Peter Gowan (1946-2009), che scrisse al tempo del bombardamento e della disgregazione della Jugoslavia da parte della NATO nel 1999:

Dobbiamo tenere a mente due fatti spiacevoli: in primo luogo, che gli stati della NATO sono stati e sono determinati ad esacerbare le disuguaglianze di potere e ricchezza nel mondo, a distruggere tutte le sfide al loro schiacciante potere militare ed economico e a subordinare quasi tutte le altre considerazioni a questi obiettivi; in secondo luogo, gli stati della NATO trovano straordinariamente facile manipolare i loro elettorati nazionali facendogli credere che stanno davvero guidando la popolazione mondiale verso un futuro più giusto e umano, quando, in realtà, non stanno facendo nulla del genere.

La NATO usa il linguaggio dei diritti umani e della sicurezza collettiva per nascondere le motivazioni profonde della sua nascita e della sua attuale esistenza. Varrebbe la pena mettere da parte questa retorica e analizzare la storia effettiva di questa alleanza militare, non per i diritti umani .

Questo dossier si compone di tre parti. La prima fornisce una storia della NATO e una valutazione del suo ruolo nel sistema imperialista guidato dagli Stati Uniti. La seconda si concentra su come la NATO, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, si sia ridefinita come gendarme globale e sia intervenuta – come mostra la terza parte – in diversi modi nel Sud del mondo.

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Camilla Ravera: Con Lenin al Cremino nel ’22 (1974)

Lenin con la moglie Nadezhda Krupskaja

«Era semplice nell’aspetto, nei modi, nelle parole che rendevano naturale la comunicazione. Ci chiese notizie sui nuovi avvenimenti italiani, sull’avvento dei fascisti al potere; Bordiga disse: “Per la classe operaia sarà un vantaggio perdere le ultime illusioni sulla democrazia borghese “; e Lenin: Ma gli operai che ne pensano?»

IL 21 GENNAIO 1924, nell’Ufficio clandestino della Segreteria del Partito stavamo fra noi conversando sul terzo compleanno del Partito: passavamo in rassegna — come avviene in tali occasioni — le vicende di quegli anni, cercando di fare un bilancio dell’opera compiuta, del suo costo in carcere. persecuzione, esilio; e insieme considerando le nuove prospettive di lavoro e di azione aperte dalla linea politica che — con la guida di Gramsci – andavamo ricuperando.

Il Partito era nato non soltanto nel momento di riflusso del grande moto operaio e popolare del dopo guerra, ma in una situazione di crisi e difficoltà economiche; di attacco iroso del padronato e dei grandi agrari contro i lavoratori; di violente aggressioni fasciste contro dirigenti sindacali e politici antifascisti, contro istituti, sedi, giornali proletari.

Nel vivo di quelle lotte e battaglie il Partito aveva dovuto costruire le sue Sezioni e compiere il suo lavoro, teso a risvegliare le coscienze, le volontà scoraggiate e umiliate dalla sconfitta; a costituire una forza politica capace di resistere e opporsi al fascismo impunito nei suoi delitti, protetto dalla forza pubblica, foraggiato, armato, attrezzato dal grande capitale industriale e agrario; e infine, dalla monarchia portato al governo del Paese. Continue reading Camilla Ravera: Con Lenin al Cremino nel ’22 (1974)