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Victor Serge non divenne un anticomunista. Una lettera inedita lo dimostra

Ho tradotto una lettera di Ian Birchall alla rivista Revolutionary History e, soprattutto, una lettera inedita di Victor Serge, che dimostrano che lo scrittore rivoluzionario in esilio non divenne un anticomunista da guerra fredda. E’ molto interessante perché il nemico di Stalin tiene a precisare al suo interlocutore francese che non bisogna farsi arruolare dal “blocco anticomunista” nè tenere una linea settaria verso i partiti comunisti fedeli all’Urss. 

Ian Birchall

L’evoluzione di Victor Serge

(From Revolutionary HistoryVol. 8 No. 3, 2003, pp.367-69)

caro direttore

Nella sua recensione di Victor Serge: The Course is Set on Hope (Revolutionary History, Volume 8, n. 2) di Susan Weissman, Paul Flewers specula su come il pensiero politico di Serge si sarebbe sviluppato se fosse sopravvissuto al periodo della Guerra Fredda. É sempre difficile giudicare quali figure del passato possano aver pensato agli eventi dopo la loro morte, ed è doppiamente difficile con Serge, un pensatore complesso e originale. Come sottolinea Richard Greeman nella sua recensione di Weissman (International Socialism, n. 94), Serge ha lasciato un gran numero di manoscritti inediti, molti dei quali non considerati da Weissman.

Flewers cita l’articolo di Alan Wald Victor Serge and the New York Anti-Stalinist Left ( The Ideas of Victor Serge, Critique, 1997) che suggerisce che Serge potrebbe essersi mosso verso l’idea che lo stalinismo fosse il “principale nemico”. L’articolo di Wald è ben documentato ed equilibrato e deve essere preso sul serio. C’è, tuttavia, un testo importante (non a mia conoscenza mai tradotto in inglese) che suggerisce una direzione di sviluppo piuttosto diversa.

É una delle lettere inviate da Serge al socialista francese René Lefeuvre. Lefeuvre (1902 1988) è meglio conosciuto come l’editore dei Cahiers Spartacus, una serie di libri di una vasta gamma di autori della sinistra antistalinista (da Serge a Denis Healey). Pubblicò anche la rivista Masses a intermittenza dal 1933 in poi; una nuova serie di 14 numeri apparve tra il 1946 e il 1948.

La lettera di Serge non è datata. La prima parte sembra sia stata inviata per la pubblicazione su Masses nell’estate del 1946, ma non sia giunta a Lefeuvre. Un’altra copia con poscritto fu inviata, probabilmente nell’ottobre 1946. L’incidente jugoslavo citato potrebbe essere un riferimento alla disputa di Trieste. La lettera è stata pubblicata nella ristampa del 1984 dai Cahiers Spartacus di Seize Fusillés à Moscou (1936) di Serge (pp. 123-5). La lettera fa tre punti importanti:

  • Serge è molto critico nei confronti dei reportage sulla Russia che non sono adeguatamente documentati. La sua ragione non risiede in qualche nozione astratta di “onestà”, ma nel riconoscimento che solo un argomento adeguatamente supportato avrà  qualche possibilità  di avere un impatto su coloro che simpatizzano con lo stalinismo. Serge non è interessato alla semplice denuncia; crede che sia desiderabile e possibile conquistare i lavoratori stalinisti.
  • Serge vede i pericoli della guerra piuttosto più dalla parte americana che dalla parte russa, poiché la Russia è ancora esausta dalla seconda guerra mondiale. Questo è nel periodo prima che la Dottrina Truman del marzo 1947 aprisse la Guerra Fredda vera e propria.
  • Soprattutto, Serge riconosce la doppia natura dei partiti stalinisti nei paesi al di fuori del blocco russo. Nonostante la loro politica stalinista, sono partiti della classe operaia e fanno parte del movimento operaio. E mentre saggiamente si astiene dal raccomandare tattiche dettagliate ai suoi compagni francesi, crede chiaramente che una sorta di attività  di fronte unico dovrebbe essere proposta ai lavoratori comunisti.

Gli anni Cinquanta furono un periodo di prova per i socialisti rivoluzionari, e furono pochi quelli che sfuggirono del tutto a fare concessioni allo stalinismo o all’imperialismo occidentale. Ma dato l’orientamento enunciato in questa lettera, trovo difficile immaginare che Serge soccombesse alla stalinofobia.

testo originale

Victor Serge

A René Lefeuvre

(senza data)

Mio caro Lefeuvre

Penso che la pubblicazione dei rapporti di W. White sull’URSS senza alcun commento critico sia stata un errore. Senza dubbio contengono un briciolo di verità. Ma il tono che adotta non è quello di un giornalista obiettivo. Le diverse parti della sua narrazione sono arrangiate un po’ troppo come le vignette dei giornali domenicali a cui il pubblico americano è così affezionato. Tanto è vero che, dal secondo numero, hai ritenuto opportuno impreziosire il testo con disegni di stile Canard Enchaîné, come se il destino del popolo russo fosse uno scherzo! White non si prende sempre la briga di cercare una spiegazione per i fatti che osserva. Per fare un esempio, constatando che ci sono pochi anziani per strada, si chiede se i russi della vecchia generazione siano morti di fame, siano stati fucilati o se semplicemente si siano persi tra la folla a causa dell’alto tasso di natalità. Poi va avanti. È uno strano metodo che gli permette di insinuare il peggio, senza prendersi la briga di verificare nulla.

Soprattutto va criticato – cosa che non mancavano di fare vari settimanali socialisti e liberali inglesi che recensirono il suo libro – per il costante ricorso al confronto tra il tenore di vita negli USA e in URSS, quando i due paesi sono in stadi molto diversi della loro evoluzione, e quando il secondo è stato messo a dura prova dalla guerra, mentre il primo ne ha tratto i vantaggi economici di cui siamo consapevoli. L’obiettivo di White è ovviamente quello di dimostrare ai suoi compatrioti che gli USA, grazie al regime capitalista, sono un paradiso e l’URSS un inferno.

Se metto in dubbio il valore del racconto di White, non è per distogliere l’attenzione dai difetti e dalle disuguaglianze sociali del regime sovietico. Non credo che stiamo “giocando al gioco reazionario”, come lo chiamano gli stalinisti, quando cerchiamo la verità  altrove che nelle descrizioni dell’URSS ispirate da un entusiasmo artificiale. Ma resoconti come quello di White possono servire a qualcosa solo se confrontati con altri, oltre che con documenti di origine sovietica. Non bastava dire che “le idee di White sono molto diverse dalle nostre”; avresti dovuto fare le necessarie riserve e critiche. Avresti dovuto almeno sottolineare che la situazione alimentare è notevolmente migliorata per tutte le categorie sociali da quando White era nel paese. I giornalisti britannici confermano su questo punto quanto dicono fonti sovietiche.

La rivista americana Politics, che è fermamente antistalinista, ma non per questo meno fermamente contro la guerra, ha recentemente criticato ferocemente la propaganda guerrafondaia contro l’URSS, che in certi ambienti negli Stati Uniti è diventata il nemico numero uno, sostituendo la Germania nazista. I rapporti di White dovrebbero essere collegati a questa propaganda, sebbene non abbia aspettato la fine della guerra per pubblicarli. Siamo tutti d’accordo nel pensare che una rottura definitiva tra gli ex alleati comporterebbe un grande pericolo per l’umanità, e quindi non vogliamo che la Francia venga trascinata in nessuno dei due campi. Dovremmo certamente resistere a qualsiasi ingerenza sovietica nella vita politica del nostro paese. Ma, come scrive uno dei nostri compagni, la ripresa economica della Francia non può essere assicurata senza l’aiuto americano. Fino a che punto la Francia potrebbe avvalersi di questo aiuto senza perdere la sua sovranità  o essere ostacolata nel suo sviluppo verso il socialismo? Questa è una domanda che dovrebbe essere discussa su Masses. In ogni caso, una cosa è certa, non dobbiamo echeggiare nelle nostre colonne, anche inconsapevolmente, le campagne scioviniste condotte dall’altra parte dell’Atlantico.

Se il regime sovietico deve essere criticato, sia da un punto di vista socialista e operaio. Se dobbiamo far sentire le voci americane, che siano quelle di democratici sinceri e amici della pace, e non demagoghi sciovinisti; siano quelle dei lavoratori che un giorno, speriamo, riusciranno ad organizzarsi in un partito indipendente.

Auguri

Poscritto: ho ricevuto la tua lettera di settembre. Ma non hai ricevuto quella che ti ho inviato all’inizio dell’estate, e che ho inviato insieme alla lettera allegata che ti ho chiesto di pubblicare su Masses. In tutta sincerità, e lasciando da parte le mie opinioni sull’URSS, la pubblicazione di questi rapporti mi ha profondamente scioccato e mi è dispiaciuto che ciò che avevo scritto sia apparso negli stessi numeri. Mi chiedevo se stessimo ancora parlando la stessa lingua. La cosa più grave è che gli altri articoli si adattavano al gollismo e al cristianesimo (fino al terzo numero), approvavano la politica estera britannica e, pur deplorando lo scontro tra i due blocchi, non formulavano alcuna critica specifica all’imperialismo americano. In tale contesto, la pubblicazione di questi rapporti, insieme ad altri ai quali in linea di principio non ho obiezioni, poiché cercavano di avvicinarsi alle cose dal punto di vista socialista, assumeva il significato di adesione al blocco occidentale.

Capisco che il pericolo stalinista ti allarma. Ma non deve farci perdere di vista la nostra visione d’insieme. Non dobbiamo fare il gioco di un blocco anticomunista e, dopo i primi numeri di Masses, abbiamo meritato di essere criticati per questo. Il PC ha mantenuto il controllo su gran parte della classe operaia. Dobbiamo essere in grado di re alla conquistare alla nostra causa gli elementi che oggi seguono gli stalinisti. Non immaginare che se seguiamo il nostro percorso attuale, riusciremo a farlo. Non possiamo assumere un atteggiamento puramente negativo nei confronti del PC. Non andremo da nessuna parte se sembriamo più preoccupati di criticare lo stalinismo che di difendere la classe operaia. Il pericolo reazionario è ancora presente, e in pratica dovremo spesso agire a fianco dei comunisti.

Un ulteriore punto. Ho appena letto le recensioni americane apparse dopo l’incidente jugoslavo e la dimostrazione di forza navale nel Mediterraneo. Il tono è preoccupante. Il pericolo di bellicismo mi sembra più serio da questa parte. Per il momento, l’URSS non può fare la guerra. Ti chiedo di considerare questo.

Mi sono ripreso dalla pleurite all’inizio dell’estate. Da allora ho avuto una mastoidite abbastanza grave. Questo sta appena iniziando a chiarirsi. Mi sto concentrando sul lavoro di tesi, che è il modo in cui mi guadagno da vivere. Appena posso, collaborerò con la rivista.

La lettera su White credo possa essere pubblicata o almeno i passaggi essenziali che vi daranno l’occasione per un chiarimento che ritengo necessario.

Non ho ricevuto lo Spartacus. Fino a quando non avrai mie notizie, non inviare nulla e non scrivere nulla che abbia un contenuto politico. Vorrei credere di sbagliarmi e che la mia posta non venga intercettata. Ma …

lettera 

Italo Calvino: l’unico partito possibile (1979)

Di Calvino si ricorda sempre e giustamente l’uscita dal PCI nel 1957 ma spesso si dimentica che rimase sempre compagno di strada del partito. Su Calvino comunista consiglio di leggere questi appunti

L’unico partito possibile. Così L’Unità il 26 maggio 1979 titolava la dichiarazione di voto dello scrittore Italo Calvino ripresa dalla rivista «Nuova Società». Andrebbe verificato cosa disse e scrisse nel periodo successivo. Buona lettura!

Io voto scheda bianca. Almeno dico a tutti che voto scheda bianca. È il mio solo modo di protestare contro queste elezioni che non rìsolveranno niente.
L’occasione dell’unità nazionale della passata legislatura che poteva servire almeno per gettare le basi di qualcosa di positivo è stata sprecata. Va bene che tutto è stato fatto per impedire uno sviluppo positivo e che l’uccisione di Moro ha dato subito i frutti voluti da quelli che l’hanno architettata, che possono essere molti. Ma già il fatto che le possibilità di sviluppo si basassero sull’esile filo della politica condotta da un uomo indica una debolezza sostanziale.
Il partito comunista, che resta la forza più responsabile e con più senso della realtà, ha nutrito troppo poco la sua politica di proposte concrete e ha subordinato troppo tutto alla tenuta dello schieramento mentre avrebbe doluto puntare i piedi fin da principio su una serie di punti fondamentali (mi rendo conto che anch’io sto facendo dei discorsi generici, ma siamo annegali in questa genericità veramente pestilenziale).
Oggi tutti sembrano d’accordo nell’affrontare un argomento che fino a ieri era tabù, cioè quello di rendere più efficiente il sistema politico anche attraverso riforme elettorali. Però questo doveva essere fatto in un clima di unità nazionale e se l’unità non continua non so come si risolva. Insomma la mia sarà una scheda bianca anche se poi all’ultime momento mi verrà da tracciare un piccolo segno sul simbolo di quello che resta l’unico partito possibile.

L’Unità sabato 26 maggio 1979

John Pilger: Noi siamo Spartaco

Spartacus è un film hollywoodiano del 1960 basato su un libro scritto segretamente dal romanziere Howard Fast, inserito nella lista nera, e adattato dallo sceneggiatore Dalton Trumbo, uno dei “10 di Hollywood” che furono banditi per la loro politica “antiamericana”. È una parabola di resistenza e di eroismo che parla senza alcun dubbio ai nostri tempi.
Entrambi gli scrittori erano comunisti e vittime del senatore Joseph McCarthy, presidente della Commissione per le Operazioni Governative e della sua Sottocommissione Permanente per le Indagini del Senato degli Stati Uniti che, nel corso della Guerra Fredda, distrusse le carriere e spesso le vite di coloro che avevano saldi principi e il coraggio sufficiente per opporsi a un fascismo in versione locale Usa.
“Questo è un momento critico, ora, in questo momento preciso …” scriveva Arthur Miller ne Il crogiuolo “Non viviamo più nel crepuscolo pomeridiano in cui il male si mescolava al bene e confondeva il mondo”.
C’è un provocatore “preciso” ora; è evidente a tutti coloro i quali vogliono vederlo e prevedere le sue azioni. Si tratta di una banda di Stati guidata dagli Stati Uniti, il cui obiettivo dichiarato è la “full spectrum dominance” (il dominio a tutto spettro). La Russia è tuttora ùl’odiata, la Cina Rossa la temuta.
Da Washington e Londra, la virulenza non ha limiti. Israele, anacronismo coloniale e mastino sguinzagliato, è armato fino ai denti e gode di un’impunità storica, in modo tale che “noi” occidentali ci assicuriamo che il sangue e le lacrime non si asciughino mai in Palestina.
I parlamentari britannici che osano chiedere un cessate il fuoco a Gaza sono messi al bando, la porta di ferro della politica bipartitica è chiusa loro da un leader del partito laburista che vorrebbe che acqua e cibo fossero negati ai bambini.
Ai tempi di McCarthy, vi erano comunque spiragli di verità. I cani sciolti accolti allora diventano eretici oggi; esiste un giornalismo sotterraneo (come questo sito, Consortium News) in un paesaggio di conformismo ipocrita. I giornalisti dissenzienti sono stati defenestrati dal “mainstream” (come scrisse il grande editore David Bowman); il compito dei media è quello di capovolgere la verità e di sostenere le illusioni della democrazia, compresa una “stampa libera”.
La socialdemocrazia si è ridotta alla larghezza di una carta di sigarette che separa le politiche principali dei partiti maggiori. La loro comune adesione è a un culto capitalistico, il neoliberismo, e a una povertà imposta, descritta da un relatore speciale delle Nazioni Unite, come “l’immiserimento di una parte significativa della popolazione britannica”.
La guerra oggi è un’ombra immobile; le guerre imperiali “per sempre” sono considerate normali. L’Iraq, il modello, viene distrutto al costo di un milione di vite e di tre milioni di profughi. Il distruttore, Blair, si arricchisce personalmente e viene adulato al congresso del suo partito come un vincitore elettorale.
Blair e la sua controparte morale, Julian Assange, vivono a 14 miglia di distanza l’uno dall’altro, l’uno in una villa di stile Regency, l’altro in una cella in attesa dell’estradizione all’inferno.
Secondo uno studio della Brown University, dall’11 settembre quasi sei milioni di uomini, donne e bambini sono stati uccisi dall’America e dai suoi accoliti nella “guerra globale al terrorismo”. A Washington verrà costruito un monumento per “celebrare” questo assassinio di massa, il cui comitato è presieduto dall’ex presidente
George W. Bush, mentore di Blair. L’Afghanistan, dove tutto è iniziato, è stato definitivamente distrutto quando il Presidente Biden ha rubato le riserve bancarie nazionali afghane.
Ci sono stati molti Afghanistan. Il giornalista d’inchiesta William Blum si è dedicato a dare un senso a un terrorismo di Stato che raramente ha pronunciato il suo nome e che quindi richiede una ripetizione: Nel corso della mia vita, gli Stati Uniti hanno rovesciato o tentato di rovesciare più di 50 governi, la maggior parte dei quali democratici. Hanno interferito in elezioni democratiche in 30 Paesi. Hanno sganciato bombe sulla popolazione di 30 paesi, la maggior parte dei quali poveri e indifesi. Ha combattuto per reprimere i movimenti di liberazione in 20 Paesi. Ha tentato di assassinare numerosi leader.
Forse sento qualcuno di voi che dice: basta così. Mentre la Soluzione Finale di Gaza viene trasmessa in diretta a milioni di persone, i piccoli volti delle vittime impressi nelle macerie bombardate, incorniciati tra le pubblicità televisive di automobili e
pizza, sì, questo è sicuramente abbastanza. Quanto è profana questa parola “abbastanza”?
L’Afghanistan è stato il luogo in cui l’Occidente ha mandato giovani uomini oberati dal rituale di “guerrieri” che debbono uccidere persone e divertirsi. Sappiamo che alcuni di loro si sono divertiti grazie alle prove dei sociopatici delle forze speciali australiane della SAS, compresa una loro fotografia che li ritrae mentre bevono dalla protesi di un uomo afghano.
Nessun sociopatico è stato incriminato per questo e per altri crimini come il lancio di un uomo da un dirupo, l’uccisione di bambini a bruciapelo, lo sgozzamento: niente di tutto questo “in battaglia”. David McBride, un ex avvocato militare australiano che ha prestato servizio per due volte in Afghanistan, era un “vero credente” nel sistema, ritenuto sistema morale e onorevole. Ha anche una profonda fede nella verità e nella lealtà. È in grado di definirle come pochi sanno fare. La prossima settimana sarà in tribunale a Canberra come presunto criminale.
“Un informatore australiano”, riferisce Kieran Pender, avvocato esperto dell’Australian Human Rights Law Centre, “dovrà affrontare un processo per aver denunciato un’orrenda irregolarità. È profondamente ingiusto che la prima persona processata per crimini di guerra in Afghanistan sia l’informatore e non un presunto criminale di guerra”.
McBride può ricevere una condanna fino a 100 anni per aver rivelato l’insabbiamento del grande crimine dell’Afghanistan. Ha cercato di esercitare il suo diritto legale di informatore in base al Public Interest Disclosure Act, che secondo l’attuale procuratore generale, Mark Dreyfus, “mantiene la nostra promessa di rafforzare le protezioni per chi denuncia irregolarità nel settore pubblico”.
Eppure è stato Dreyfus, ministro laburista, a firmare il processo a McBride, dopo un’attesa punitiva di quattro anni e otto mesi dal suo arresto all’aeroporto di Sydney: un’attesa che ha distrutto la sua salute e la sua famiglia.
Coloro che conoscono David e sanno dell’orribile ingiustizia che gli è stata fatta riempiono la sua strada a Bondi, vicino alla spiaggia di Sydney, per salutare quest’uomo buono e rispettabile. Per loro, e per me, è un eroe.
McBride rimase sconvolto da ciò che trovò nei documenti e files che gli fu ordinato di ispezionare. C’erano prove di crimini e del loro insabbiamento. Passò centinaia di documenti segreti all’Australian Broadcasting Corporation e al Sydney Morning Herald. La polizia fece irruzione negli uffici della ABC a Sydney, mentre giornalisti e produttori assistevano scioccati alla confisca dei loro computer da parte della polizia federale.
Il procuratore generale Dreyfus, autodefinitosi riformatore liberale e amico degli informatori, ha il singolare potere di fermare il processo McBride. Una ricerca della Freedom of Information sulle sue azioni in questa direzione rivela poco, al massimo l’indifferenza.
Non si può gestire una democrazia vera, compiuta e una guerra coloniale; una aspira alla decenza, l’altra è una forma di fascismo, a prescindere dalle sue pretese. Basti pensare ai campi di sterminio di Gaza, bombardati a tappeto dall’apartheid israeliano.
Non è un caso che nella ricca ma impoverita Gran Bretagna sia in corso una “inchiesta” sull’uccisione da parte dei soldati delle SAS britanniche di 80 afghani, tutti civili, tra cui una coppia nel suo letto.
La grottesca ingiustizia di cui è stato vittima David McBride è sul calco dell’ingiustizia di cui è stato vittima il suo compatriota Julian Assange. Entrambi sono miei amici. Ogni volta che li vedo, sono ottimista. “Mi rallegri”, dico a Julian quando alza un pugno di sfida alla fine della nostra visita. “Mi fai sentire orgoglioso”, dico a David nel nostro caffè preferito a Sydney.
Il loro coraggio ha permesso a molti di noi, che potrebbero non avere speranza, di comprendere il vero significato di una resistenza che tutti condividiamo se vogliamo impedire la conquista di noi stessi, della nostra coscienza, del nostro rispetto, se preferiamo la libertà e la decenza alla condiscendenza e alla collusione. In questo siamo tutti Spartaco.
Spartaco era il capo ribelle degli schiavi di Roma nel 71-73 a.C. Nel film Spartaco di Kirk Douglas c’è un momento emozionante in cui i Romani chiedono agli uomini di Spartaco di rivelare il loro capo e di essere così graziati. Invece centinaia di suoi compagni si alzano in piedi, alzano i pugni in segno di solidarietà e gridano: “Io sono Spartaco!”. La ribellione è in corso.
Julian e David sono Spartaco. I palestinesi sono Spartaco. Le persone che riempiono le strade con bandiere, principi morali e solidarietà sono Spartaco. Siamo tutti Spartaco, se vogliamo esserlo.

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BRIAN ENO: SI TRATTA DI PERSONE CHE CREDONO NELLA PACE CONTRO PERSONE CHE CREDONO NELLA GUERRA

Brian Eno non è solo un grande artista ma anche un attivista di lungo corso. Ultimamente è diventato anche portavoce di Stop the War Coalition. Vi segnalo un suo intervento che merita massima diffusione sul massacro di #Gaza e l’atteggiamento di governi e media occidentali. 
In quale universo morale viviamo quando un ministro del governo inglese può affrontare la crisi degli alloggi cercando di confiscare le tende in cui sono costretti a vivere i senzatetto?
In quale universo morale viviamo quando lo stesso ministro può descrivere una marcia destinata a salvare le vite di civili disarmati come una “marcia dell’odio”?
In quale universo morale viviamo quando giornalisti ebrei israeliani che chiedono un cessate il fuoco vengono cacciati dalle loro case da bande di coloni armati di fucile?
In quale universo morale viviamo quando una donna ebrea israeliana che protesta in Germania per l’annientamento di Gaza viene arrestata per antisemitismo?
In quale universo morale viviamo quando il nostro governo sostiene uno Stato che sgancia 20000 tonnellate di bombe per demolire ospedali, moschee, scuole, centrali elettriche, strade e convogli di aiuti e rende inabitabili cinquantamila edifici civili?
In quale universo morale viviamo quando Itamar ben-Gvir, il ministro israeliano della Sicurezza, dice alla polizia di sparare sui palestinesi che difendono le loro case dai coloni e dice ai palestinesi: “Siamo noi i padroni di casa qui, ricordatelo, io sono il vostro padrone di casa”.
In quale universo morale viviamo quando B’tselem, la più grande organizzazione israeliana per i diritti umani, viene liquidata come antisemita per aver detto che “la Striscia di Gaza è in preda a un disastro umanitario causato dall’uomo. Questo è il risultato diretto della politica ufficiale di Israele, che continua a determinare la vita quotidiana a Gaza. Israele potrebbe cambiare questa politica e migliorare significativamente la qualità della vita a Gaza. Potrebbe anche persistere nella sua politica insensibile e indifendibile che condanna i quasi due milioni di residenti della Striscia di Gaza a una vita di abietta povertà in condizioni quasi disumane”.
Non si tratta di ebrei contro il resto di noi: si tratta di persone, ebree e non, che credono nella pace contro persone che credono nella guerra.

testo originale: https://www.stopwar.org.uk/article/brian-eno-this-is-about-who-believe-in-peace-vs-people-who-believe-in-war/

Socializzo anche una sua intervista su guerra in Ucraina:

 

 

Marcuse, Israele e gli ebrei

Nel Natale del 1971, invitato a tenere lezioni all’Università Ebraica di Gerusalemme, Herbert Marcuse visitò Israele per la prima volta. Fu per lui l’occasione per visitare il Paese e confrontarsi con la popolazione araba e israeliana sulla questione palestinese. Incontrò anche Moshe Dayan come ha rivelato Zvi Tauber su Telos. Questa è l’articolo che pubblicò sul quotidiano israeliano in lingua inglese “ Jerusalem Post” il 2 gennaio 1972 sotto il titolo “Israel is Strong Enough to Concede”. Una traduzione ebraica di quell’articolo apparve contemporaneamente sul quotidiano israeliano quotidiano Haaretz con il titolo “Le mie opinioni sul conflitto arabo-israeliano: Israele deve accettare l’esistenza di uno Stato palestinese”. Tradotto all’epoca in arabo, suscitò un intenso dibattito. Pubblico anche la traduzione di un intervento precedente del 1967 in un dibattito con Rudi Dutschke e Wolfgang Lefèvre che fu pubblicato su Elements, rivista del Comitato della Sinistra per la Pace Negoziata in Medio Oriente, n° 1, dicembre 1968

Le mie opinioni sul conflitto arabo-israeliano: Israele deve accettare l’esistenza di uno Stato palestinese (1972)

Molti amici, soprattutto tra studenti, mi hanno chiesto di esprimere loro la mia opinione sulla situazione in Medio Oriente. Rispondo loro con questa dichiarazione. Questa è un’opinione personale basata sulle discussioni che ho avuto con molte persone, sia ebrei che arabi, in diverse parti del Paese, e su una lettura abbastanza approfondita di documenti e fonti secondarie. Sono pienamente consapevole dei suoi limiti e lo offro come semplice contributo al dibattito.

Credo che l’obiettivo storico dietro la fondazione dello Stato di Israele fosse quello di prevenire il riemergere di campi di concentramento, pogrom e altre forme di persecuzione e discriminazione. Sostengo pienamente questo obiettivo che, per me, è parte della lotta per la libertà e l’uguaglianza di tutte le minoranze etniche e nazionali nel mondo.

Nell’attuale contesto internazionale, il perseguimento di tale obiettivo presuppone l’esistenza di uno Stato sovrano capace di accogliere e proteggere gli ebrei perseguitati o che vivono sotto minaccia di persecuzione. Se un tale Stato fosse esistito quando il regime nazista salì al potere, avrebbe impedito lo sterminio di milioni di ebrei. Se un tale Stato fosse stato aperto ad altre minoranze perseguitate, comprese le vittime di persecuzioni politiche, avrebbe salvato molte più vite.

Alla luce di questi fatti, la nostra discussione deve basarsi sul riconoscimento di Israele come Stato sovrano e sulla considerazione delle condizioni in cui è stato fondato, vale a dire l’ingiustizia che è stata fatta alla popolazione araba indigena.

La creazione dello Stato di Israele è stato un atto politico, reso possibile dalle grandi potenze perché rientrava nel perseguimento dei propri interessi. Durante il periodo di insediamento precedente alla fondazione dello Stato, e durante la fondazione stessa, i diritti e gli interessi della popolazione indigena non furono adeguatamente rispettati.

La fondazione dello Stato ebraico ha comportato, fin dall’inizio, lo sfollamento del popolo palestinese, in parte con la forza, in parte sotto pressione (economica e non), in parte “volontariamente”.  La popolazione araba rimasta in Israele si trovò ridotta allo status economico e sociale di cittadini di seconda classe, nonostante i diritti loro concessi. Le differenze nazionali, razziali e religiose sono diventate differenze di classe: la vecchia contraddizione è riemersa nella nuova società, aggravata dalla fusione di conflitti interni ed esterni.

Sotto tutti questi aspetti, le origini dello Stato di Israele non sono fondamentalmente diverse da quelle di praticamente qualsiasi stato nella storia: fondazione attraverso la conquista, l’occupazione e la discriminazione. (L’approvazione delle Nazioni Unite non cambia la situazione: questa approvazione ha confermato di fatto la conquista.)

Una volta accettato questo fatto compiuto e l’obiettivo storico fondamentale che lo Stato di Israele si è posto, si pone la questione se questo Stato, così come è costituito oggi e con la politica che attualmente conduce, sia in grado di raggiungere il suo obiettivo pur esistendo come una società progressista che mantiene relazioni normalmente pacifiche con i suoi vicini.

Risponderò a questa domanda facendo riferimento ai confini di Israele nel 1948. Qualsiasi annessione, qualunque sia la sua forma, suggerirebbe già, a mio avviso, una risposta negativaSignificherebbe che Israele potrebbe garantire la propria sopravvivenza solo come fortezza militare in un vasto ambiente ostile, e che la sua cultura materiale e intellettuale si sottometterebbe alle crescenti richieste militari. La natura pericolosamente precaria ed effimera di tale soluzione è fin troppo evidente. Mentre una superpotenza (o i suoi satelliti) possono esistere in queste condizioni per un periodo prolungato, questa possibilità è esclusa per Israele a causa delle sue dimensioni geografiche e della politica degli armamenti delle superpotenze.

Partendo dalla situazione attuale, il primo prerequisito per una soluzione è un trattato di pace con la Repubblica Araba Unita; un trattato che includa il riconoscimento dello Stato di Israele, il libero accesso al Canale di Suez e al Golfo di Akaba e una soluzione alla questione dei rifugiati. Credo che sia possibile negoziare un simile trattato adesso, e che la risposta dell’Egitto alla missione Jarring (15 febbraio 1971) fornisca una base accettabile per negoziati immediati.

Soprattutto, l’Egitto chiede che Israele si impegni a ritirare le sue forze armate dal Sinai e dalla Striscia di Gaza. La creazione di una zona smilitarizzata, posta sotto la protezione di una forza delle Nazioni Unite, potrebbe scongiurare la possibilità di un devastante attacco arabo al quale, secondo alcuni, questo ritiro esporrebbe Israele. Il rischio corso non mi sembra maggiore del rischio permanente di guerra esistente nelle condizioni attuali. La potenza più forte può permettersi le maggiori concessioni – e sembra che Israele sia quella potenza.

Lo status di Gerusalemme potrebbe rivelarsi l’ostacolo più serio ad un trattato di pace. Un sentimento religioso profondamente radicato, su cui giocano costantemente i loro leader, rende inaccettabile agli occhi degli arabi (e dei cristiani?) che Gerusalemme sia la capitale di uno Stato ebraico. Una soluzione alternativa potrebbe consistere nel porre la città una volta riunificata (Est e Ovest) sotto amministrazione e protezione internazionale.

Nella sua risposta, l’Egitto chiede anche una “giusta soluzione del problema dei rifugiati in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite”. La formulazione di queste risoluzioni (compresa la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza) è soggetta a interpretazione e, in questo senso, deve essere essa stessa oggetto di negoziati. Vorrei menzionare solo due possibilità (o la loro combinazione), che sono state suggerite nelle discussioni che ho avuto con personalità ebraiche e arabe.

1. Ritorno in Israele dei palestinesi che sono stati sfollati e desiderano ritornare. Questa possibilità è limitata in anticipo nella misura in cui le terre arabe sono diventate terre ebraiche e le proprietà arabe sono proprietà ebraiche. Questo è un altro fatto storico sul quale non possiamo ritornare senza commettere un nuovo torto. Ciò potrebbe essere mitigato se questi palestinesi si stabilissero su terreni ancora disponibili e/o se venissero offerte loro strutture e risarcimenti adeguati.

Questa soluzione è ufficialmente respinta sulla base (di per sé corretta) che un simile ritorno trasformerebbe rapidamente la maggioranza ebraica in una minoranza e, quindi, distruggerebbe lo scopo stesso della creazione dello Stato ebraico. Tuttavia, ritengo che proprio la politica volta a garantire una maggioranza permanente sia, di per sé, destinata al fallimento. La popolazione ebraica è condannata a rimanere una minoranza all’interno del vasto gruppo delle nazioni arabe, dalla quale non può separarsi indefinitamente senza ricadere nelle condizioni di un ghetto su scala più ampia. Israele, certamente, potrebbe mantenere una maggioranza ebraica attraverso una politica di immigrazione aggressiva, che, a sua volta, rafforzerebbe continuamente il nazionalismo arabo. Ma Israele non può esistere come Stato progressista se continua a vedere i suoi vicini come il Nemico, l’Erbfeind. Non è nell’esistenza di una maggioranza chiusa in se stessa, isolata e preda della paura che il popolo ebraico trovi una protezione duratura, ma solo nella convivenza tra ebrei e arabi come cittadini beneficiari degli stessi diritti e libertà. Questa coesistenza può solo risultare da un lungo processo di tentativi ed errori, ma ora esistono i prerequisiti per muovere i primi passi.

Si scopre che il popolo palestinese vive da secoli in un territorio oggi parzialmente occupato e amministrato da Israele. Queste condizioni rendono Israele una potenza occupante (anche all’interno di Israele), e il Movimento di Liberazione della Palestina un movimento di liberazione nazionale – per quanto liberale possa essere la potenza occupante.

2. Le aspirazioni nazionali del popolo palestinese potrebbero essere soddisfatte dalla creazione di uno Stato nazionale palestinese accanto allo Stato di Israele. Spetterà al popolo palestinese decidere, attraverso un referendum sotto il controllo delle Nazioni Unite, se questo Stato dovrà essere un’entità indipendente o federato con Israele o Giordania.

La soluzione ottimale sarebbe la coesistenza tra israeliani e palestinesi, ebrei e arabi, su un piano di parità all’interno di una federazione socialista di stati del Medio Oriente. Questa prospettiva resta utopica. Le possibilità discusse sopra rimangono soluzioni temporanee che si presentano qui e ora: rifiutarle completamente potrebbe causare danni irreparabili.

Herbert Marcuse

 

Intervento a Berlino (1967)

“Vorrei permettermi una breve digressione, apparentemente estranea al tema del dibattito attuale. Ho notato nei vostri interventi un fenomeno singolare, una sorta di blocco: una totale assenza di allusione al conflitto mediorientale. Al contrario, credo che sia più che legittimo integrare il problema del conflitto arabo-israeliano nel dibattito sull’attuale situazione dell’archeocapitalismo nel Terzo Mondo, a causa del suo impatto disastroso sulle diverse forze del progresso e in particolare della sinistra marxista.

Soprattutto negli Stati Uniti, la sinistra emerse da questo conflitto più divisa che mai. Inoltre, ritengo non sia esagerato affermare che il conflitto in Medio Oriente abbia ulteriormente indebolito la già limitata opposizione alla guerra in Vietnam. Le ragioni di questo fenomeno sono evidenti: esiste infatti, all’interno delle forze progressiste, una tendenza molto forte e molto comprensibile ad identificarsi con Israele. D’altra parte, questa sinistra, e in particolare la sinistra marxista, non possono fingere di ignorare che il mondo arabo coincide in parte con il campo antimperialista.

In queste condizioni, la solidarietà sentimentale e la solidarietà razionale appaiono oggettivamente distinte, addirittura dissociate. Detto questo dovete interpretare quanto vi dico come un parere personale che sottopongo al vostro giudizio piuttosto che come un’analisi oggettiva del problema. Dovete capire quanto mi sento solidale e mi identifico con Israele per ragioni personali, ma non solo per queste ragioni. Io stesso, che ho sempre affermato la piena legittimità dei sentimenti, delle concezioni morali e dei sentimenti nella politica e anche nella scienza, io che ho sempre sostenuto l’impossibilità di realizzare scienza e politica senza l’elemento umano, sono obbligato a vedere in questa solidarietà più che un semplice pregiudizio personale.

Non posso dimenticare che per secoli gli ebrei furono perseguitati e oppressi e che non molto tempo fa sei milioni di loro furono sterminati. Questo è un fatto oggettivo.

Gli ebrei hanno finalmente trovato una terra dove non devono più temere persecuzioni, persecuzioni e oppressione e mi identifico con l’obiettivo che hanno raggiunto. Sono felice di poter concordare, anche in questo caso, con Jean-Paul Sartre che ha affermato: «L’unica cosa che dobbiamo impedire a tutti i costi è una nuova guerra di sterminio contro Israele».

Per risolvere il problema bisogna partire da questa premessa, ma ciò non implica l’accettazione totale delle tesi di Israele, né di quelle dei suoi nemici. Permettetemi di esprimere la mia opinione in modo più completo e chiaro: la fondazione di Israele come Stato autonomo può essere definita illegittima nella misura in cui è stata effettuata sulla base di un accordo internazionale, su un territorio straniero e senza tener conto della popolazione locale e del suo destino.

Ma questa ingiustizia non può essere riparata da una seconda ingiustizia. Lo Stato di Israele esiste e deve trovare un terreno di incontro e di comprensione con il mondo ostile che lo circonda. Questa soluzione è l’unica possibile. Ammetto che alla prima ingiustizia se ne sono aggiunte altre da parte di Israele. Il trattamento riservato alla popolazione araba è stato quantomeno riprovevole, se non peggiore.

La politica di Israele ha avuto aspetti razzisti e nazionalisti che noi ebrei avremmo dovuto essere i primi a condannare. È assolutamente inaccettabile che gli arabi in Israele siano trattati come cittadini di seconda classe, anche se esiste l’uguaglianza giuridica.

Una terza ingiustizia (e si vede che non sto semplificando le cose) è il fatto che ritengo incontestabile che dalla creazione dello Stato la politica israeliana sia stata troppo servile e la politica estera americana troppo passiva (…). E questo atteggiamento ha facilitato l’identificazione di Israele con l’imperialismo, consentendo al contrario l’identificazione della causa araba con quella dell’antimperialismo.

Ma anche qui non voglio semplificare le cose: il mondo arabo non costituisce un’unità. Sapete bene quanto me come è composto da stati e società sia progressisti che reazionari. Quando parliamo di sostegno all’imperialismo, dobbiamo sempre chiederci se quest’ultimo non sia meglio servito dalle continue forniture di petrolio provenienti dall’Arabia Saudita e dal Kuwait che dai voti di Israele all’ONU

In secondo luogo, dobbiamo tenere conto delle ripetute offerte di pace di Israele, offerte che i rappresentanti del mondo arabo hanno costantemente rifiutato.

In terzo luogo, non possiamo perdere di vista le dichiarazioni precise, chiare e clamorose dei portavoce arabi che proclamano il loro desiderio di scatenare una guerra di sterminio contro Israele. Questo è un fatto che mi dispiace terribilmente e, purtroppo, basta fare qualche ricerca per averne la prova.

È in tale contesto che la guerra preventiva (perché tale era infatti il ??carattere della guerra condotta contro Egitto, Giordania e Siria) può e deve essere compresa e giustificata.

Attualmente il problema è: cosa si può fare per porre fine a un susseguirsi di conflitti così terribile? Purtroppo, da molto tempo il confronto tra Israele e gli Stati arabi si è evoluto in un confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, passando dalla sfera regionale a quella della diplomazia, pubblica e segreta, non per citare quello della concorrenza tra fornitori di armi da entrambe le parti.

Come riportare il conflitto alla sua estensione originaria? Tutti noi dobbiamo cercare, per quanto possibile, di convincere i rappresentanti di Israele e dei paesi arabi a incontrarsi per discutere e, in definitiva, cercare di risolvere i loro problemi, che in realtà sono diversi da quelli delle grandi potenze.

La soluzione ideale sarebbe che da queste discussioni emergesse un fronte comune, formato da Israele e dai suoi avversari arabi, contro l’attacco delle potenze imperialiste.

Questo è un problema che è già maturo. Anche nei Paesi arabi, infatti – non dimentichiamolo – resta ancora da fare la rivoluzione sociale, rivoluzione che, forse, rappresenta un compito più urgente e imperativo della distruzione di Israele. »

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Su Herbert Marcuse su questo blog anche una lezione di Angela Davis e un dialogo sul comunismo democratico