
Lenin con la moglie Nadezhda Krupskaja
«Era semplice nell’aspetto, nei modi, nelle parole che rendevano naturale la comunicazione. Ci chiese notizie sui nuovi avvenimenti italiani, sull’avvento dei fascisti al potere; Bordiga disse: “Per la classe operaia sarà un vantaggio perdere le ultime illusioni sulla democrazia borghese “; e Lenin: Ma gli operai che ne pensano?»
IL 21 GENNAIO 1924, nell’Ufficio clandestino della Segreteria del Partito stavamo fra noi conversando sul terzo compleanno del Partito: passavamo in rassegna — come avviene in tali occasioni — le vicende di quegli anni, cercando di fare un bilancio dell’opera compiuta, del suo costo in carcere. persecuzione, esilio; e insieme considerando le nuove prospettive di lavoro e di azione aperte dalla linea politica che — con la guida di Gramsci – andavamo ricuperando.
Il Partito era nato non soltanto nel momento di riflusso del grande moto operaio e popolare del dopo guerra, ma in una situazione di crisi e difficoltà economiche; di attacco iroso del padronato e dei grandi agrari contro i lavoratori; di violente aggressioni fasciste contro dirigenti sindacali e politici antifascisti, contro istituti, sedi, giornali proletari.
Nel vivo di quelle lotte e battaglie il Partito aveva dovuto costruire le sue Sezioni e compiere il suo lavoro, teso a risvegliare le coscienze, le volontà scoraggiate e umiliate dalla sconfitta; a costituire una forza politica capace di resistere e opporsi al fascismo impunito nei suoi delitti, protetto dalla forza pubblica, foraggiato, armato, attrezzato dal grande capitale industriale e agrario; e infine, dalla monarchia portato al governo del Paese.
Il Partito si era costruito una salda ossatura ramificata in tutte le regioni: doveva però diventare più capace di azione e iniziativa politica, di presenza politica nella realtà del paese. E di questa esigenza — insistentemente richiamata da Gramsci con le sue lettere da Vienna — stavamo fra noi conversando in quel terzo compleanno del Partito. Ma una gravissima, dolorosa notizia, di colpo, annullò ogni altro discorso e pensiero.
LENIN È MORTO: tutti i giornali, con grande rilievo, recavano questo annunzio: nella stampa borghese Lenin appariva ora nella sua reale grandezza.
LENIN È MORTO Non riuscivo a leggere altre parole. Provavo la sensazione di un grande vuoto improvviso: un vuoto grande sul nuovo cammino degli uomini che Lenin aveva aperto, iniziato, e lasciava nei suoi primi difficilissimi passi.
Ma quanto difficile appariva il procedere in quel cammino, restando fedeli. in ogni passo, al pensiero di Lenin. alla meta che egli aveva prospettato: la liberazione dell’uomo da ogni sfruttamento, oppressione, ingiustizia: e dalla irrazionalità e disumanità della guerra, verso la libera, responsabile. solidale comunità di tutti gli uomini.
Pensavo alle difficoltà, ai problemi tremendi già incontrati in quegli anni. Lenin sapeva all’occorrenza rallentare il passo, e di nuovo avanzare, sempre lungo il filo rosso di fondo. Sapeva costruire, ricostruire, riordinare: dalla fabbrica, alla direzione dello Stato: in permanente contatto con i compagni, con gli operai, i contadini, gli intellettuali, i soldati. le donne, i giovani: stimolando e animando la fervida, creativa cooperazione di tutti. Con la sua ricchissima umanità riusciva a identificarsi con l’intiero suo popolo.
E a un tratto, da quei pensieri emerse in me. vivissima, l’immagine di Lenin. sulla porta della sua stanza di lavoro amichevolmente sorridente nello accogliere Bordiga e me: nel novembre 1922.
Mi trovavo allora a Mosca: facevo parte del gruppo di compagni che rappresentavano il Partito al IV Congresso dell’Internazionale Comunista. A Mosca ci era giunta la notizia della «marcia fascista su Roma». Quell’avvenimento era diventato argomento di tutti i nostri discorsi. E su quell’avvenimento si era manifestato il profondo dissenso di valutazione e di pensiero esistente fra Gramsci e Bordiga.
Per Bordiga. la «marcia su Roma» era stata un buffonesco modo di cambiamento di governo: concluso con una operazione parlamentare nel quadro delle strutture tradizionali dello Stato: con la formazione di un governo il quale poteva risultare più reazionario di altri precedenti, ma non modificava la sostanza dello Stato borghese: e quindi non poneva problemi politici particolari alla classe operaia e al suo Partito.
Per Gramsci, invece. la millantata «marcia su Roma» e l’instaurazione del governo fascista costituivano un fatto che modificava profondamente la direzione e l’apparato dello Stato in senso antioperaio e antidemocratico, e creava conseguenze gravi per le organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia e per gli altri movimenti antifascisti, prospettando un periodo di dura repressione antioperaia e anticomunista, condizioni e problemi nuovi per la vita. la politica, la tattica del Partito.
Bordiga desiderava soprattutto di avere con Lenin un colloquio sui problemi politici e tattici allora in discussione nell’Internazionale Comunista e nell’Unione Sovietica: ma, Lenin era malato, e i medici non permettevano che fosse affaticato con discussioni.
Un mattino, però. Bordiga, entrando nello studio di Gramsci, annunciò che una breve visita di saluto a Lenin gli era stata concessa. E mi condusse con sé.
Lenin — come altri dirigenti sovietici — abitava allora nel Cremlino: non nel palazzo degli zar, conservato come Museo nazionale. ma in un modesto appartamento in una delle palazzine già abitate dal personale della corte.
Quel mattino. ì palazzi. le chiese, le vie. le piazze del Cremlino erano avvolte di neve asciutta e morbida, qua e là luccicante nel sole con i vividi colori dell’iride. Un quadro suggestivo: in cui io mentalmente collocavo la grande — già quasi mitica — figura di Lenin. Tanto grande era Lenin, tanto straordinaria l’opera da lui compiuta, che ognuno era portato a raffigurarlo anche nell’aspetto con immagini di grandezza e di potenza E così io lo immaginavo nel momento in cui fummo introdotti nel suo studio.
Egli ci era venuto incontro sorridendo, salutando in italiano, e continuando il discorso in francese. Era estremamente semplice, nell’aspetto, nei modi, nelle parole che rendevano naturale e immediata la comunicazione. «È Lenin » — mi dicevo, quasi con stupore.
Tutta la mia attenzione era concentrata su di lui. Del luogo, infatti, non ho ricordi particolarmente precisi: una grande stanza dalle pareti intieramente occupate da scaffali colmi di libri, riviste, giornali. In fondo alla stanza un ampio tavolo con fogli, cartelle, giornali: fra gli altri mi colpirono alcuni giornali italiani, aperti: forse li stava sfogliando — pensavo — e segnando qua e là parti da far tradurre per una lettura precisa. Seduti intorno a quel tavolo fraternamente si conversava.
Bordiga diceva a Lenin che eravamo stati in ansia e preoccupazione per la sua salute. «Sto bene — interrompeva sorridendo Lenin — Debbo però obbedire a tiranniche prescrizioni dei medici: per non riammalarmi. Ciò sarebbe spiacevole, c’è tanto da fare».
Ed era passato a parlare delle cose di Russia. Era soddisfatto della ripresa lenta ma sicura dell’economia sovietica: citava a conferma della sua fiduciosa soddisfazione fatti, dati, argomenti, con un discorso lucido, incisivo, che non lasciava ombre né dubbi. «Di queste cose parlerò al Congresso» — aveva detto — Ora desidero sentire notizie e opinioni sui nuovi avvenimenti d’Italia».
Bordiga aveva esposto i fatti e ripetuto i giudizi già sostenuti con Gramsci. Lenin ascoltava, serio, e — mi pareva — un po’ stupito. Ad un tratto chiese: «Che cosa pensano di questi avvenimenti gli operai, i contadini, la gente d’Italia?». E Bordiga: «Per la classe operaia sarà un vantaggio perdere le ultime illusioni sul valore della democrazia borghese». « Ma — aveva insistito Lenin — oggi che cosa pensano gli operai?».
«Lottano», dissi io. Pensavo ai lavoratori che stavano combattendo contro le squadracce fasciste in tante città e campagne d’Italia.
«Lottano? Bene» commentò Lenin. E aggiunse: «La classe operaia lotta sempre per conquistare e difendere i diritti democratici; anche se contenuti nei limiti del potere borghese. E quando li perde lotta per riconquistarli».
Ma il discorso era stato interrotto. Nella stanza era entrata la compagna di Lenin: fatto a noi un cenno di saluto, guardava Lenin, come in attesa.
«L’ingresso di Krupskaia — egli spiegò — significa che il tempo concesso per il nostro colloquio è finito. I medici sono severi, e io debbo obbedire»-
«Ci rivedremo al Congresso» — disse cordialmente mentre ci accompagnava alla porta dello studio. Al momento di lasciarci, riferendosi al discorso interrotto, disse ancora: «Avrete un lavoro duro, difficile. Essenziale sarà il non perdere mai, in nessuna situazione, il contatto diretto con la realtà, con gli operai, i contadini, la condizione e la vita di tutto il popolo».
Nel corso della mia lunga milizia e specialmente in momenti difficili e decisivi, quelle parole risuonarono sempre in me, come indicazione e ammonimento permanentemente validi i importanti.
Camilla Ravera
Questo articolo fu pubblicato su l’Unità nel 1974 in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Lenin.
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