“Gli uomini senza idee non sono affatto uomini, gli uomini senza idee sono pupazzi, burattini o peggio, persone immorali, senza dignità , senza cuore”, così scriveva la scrittrice spagnola Almudena Grandes, purtroppo uccisa dal cancro a soli 61 anni. L’autrice de Le età di Lulù apparteneva alla generazione che era cresciuta nella dittaura franchista e che ha superato/rifiutato con grande vitalità e creatività la morale del clericofascismo: “la mia generazione viveva in un paese dove il peccato era peggio del crimine”. Ci lascia libri molto belli e tante testimonianze di impegno. Questa dimensione politica è sottolineata dai messaggi di cordoglio delle nostre compagne e dei nostri compagni del Partito Comunista Spagnolo, di Izquierda Unida e di Podemos. Non era certo un segreto che la scrittrice fosse una sostenitrice di Unidas Podemos, assai critica non solo verso la destra ma anche verso i socialiberisti di Felipe Gonzales. Nei suoi romanzi e nei suoi articoli difese la memoria antifascista del paese e in particolare il ruolo svolto dai comunisti. Presentando il suo romanzo Ines e l’allegria dichiarò che “i comunisti sono stati gli unici che non hanno smesso di lottare contro la dittatura. E’ vero che hanno fatto anche cose sbagliate, ma almeno le hanno fatte. La democrazia spagnola ha un grande debito di gratitudine verso i resistenti comunisti”. Vi propongo un articolo dalla sua rubrica sul quotidiano El Pais di pochi mesi fa. Si intitolava Comunismo y libertad. Buona lettura!
C’è stato un tempo, lontano ma non remoto, in cui i termini comunismo e libertà erano sinonimi. È successo in Spagna, un paese che aveva lo stesso nome e occupava lo stesso territorio del paese in cui viviamo ora, ma era ovviamente diverso.
È paradossale che, dopo più di 40 anni di democrazia, la versione coniata dalla dittatura franchista resti più viva del ricordo dell’unica organizzazione politica che ha combattuto contro il dittatore per 37 anni di fila, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Mi vengono in mente diversi motivi per spiegarlo e nessuno mi piace, ma forse il più decisivo è che quei miserabili spagnoli, a cui mancava tutto, avevano l’illusione per il futuro, la capacità di sognarlo. Non avevano avuto un libro tra le mani in vita loro, ma era molto difficile ingannarli. Erano poveri, e lo sapevano, sapevano che da soli non sarebbero andati da nessuna parte, che dovevano fare affidamento su altri come loro, per poter sostenere chi veniva dopo. Sapevano che gli interessi dei ricchi erano opposti ai loro, che non avrebbero conquistato nulla se non insistevano nel difendere i propri orizzonti e che la loro unica forza era l’unità . Questo, essendo così miserabili, li rendeva potenti allo stesso tempo.
Dov’è andata a finire tutta quell’esperienza, quel modo di intendere la vita genuinamente spagnolo, radicalmente estraneo alla figura di Stalin o di Castro? Non lo so. Neanche a questo vogliono pensare i nipoti, i pronipoti di quelle persone così povere, così ricche allo stesso tempo. Sicuramente sembra loro un brutto, spiacevole passato, si vergognano di raccontare ai loro amici in quali condizioni ha dovuto vivere la loro famiglia non tanti anni fa. Non sono in grado di distinguere la luce che illumina la storia di tanta sofferenza, di ammirare la resistenza erculea di chi è riuscito ad andare avanti contro ogni previsione. Non è colpa loro, è il segno dei tempi, la condizione di chi abita l’epoca che ha sancito un feroce individualismo come arma suprema del capitalismo trionfante.
Prima di finire questo articolo, voglio mandare un abbraccio a Pablo Iglesias. Tra le cose per cui devo ringraziarlo, quella che più mi commuove è che ha osato difendere l’onore dei vecchi comunisti spagnoli dal banco azzurro del Congresso.
È confortante che, di tanto in tanto, qualcuno dica la verità .
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