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La testimonianza di Lajolo su Mao e Stalin nel 1956

Mao tra Mauro Scoccimarro e Davide Lajolo a Pechino nel 1956

Negli anni ’60 i comunisti cinesi nelle polemiche contro il “revisionismo” che condussero alla rottura con l’Urss di Krusciov come con il PCI di Togliatti assunsero una posizione di difesa di Stalin e di rifiuto della critica del “culto della personalità” e degli “errori” del leader sovietico che era stata avanzata nell’indimenticabile 1956 durante il XX Congresso. 

Una testimonianza di Davide Lajolo, tratta dal suo libro “24 anni di un uomo fortunato“, ci ricorda che in realtà inizialmente Mao condivise la critica di Krusciov a Stalin. Così Lajolo, che faceva parte della delegazione del PCI in Cina, riferisce le parole di Mao in un incontrò del 21 settembre 1956:

“Il comunismo in URSS, negli ultimi anni, era giunto ad una situazione insopportabile. Come una pentola ermeticamente chiusa, sotto un fuoco continuo, da anni in ebollizione. La pentola minacciava di scoppiare”.

Rivolgendosi direttamente a me: “Secondo te, jeunesse, chi, davanti al rischio dello scoppio, corre per primo a togliere il coperchio? Il più prudente o il più coraggioso?”. “Il più coraggioso”, rispondo. “Bene è così. Allora vale tenerne conto. Il compagno Krusciov e gli altri protagonisti del XX Congresso hanno avuto il coraggio di alzare il coperchio rovente della pentola e di impedirne lo scoppio. Non solo; si sono messi subito all’opera per riparare gli errori e i delitti del passato, onde rinnovare e rinvigorire la forza del partito e dell’URSS. Se loro hanno avuto tanto coraggio e decisione, non c’è motivo che Mao o Togliatti o chiunque altro responsabile di altri partiti si lamentino perché qualche goccia di quell’acqua bollente ci è caduta sulla testa e ci ha scottato.

Stalin, nei suoi ultimi anni e nelle sue ultime decisioni, aveva trasferito nel marxismo un clima feudale. Stalin era diventato il Gengis Khan del comunismo. Gli errori ideologici più gravi consistevano nell’instaurazione di un metodo politico, basato non sulla partecipazione del partito, ma sul sospetto, avvalendosi dello spionaggio nei confronti degli stessi compagni dirigenti del partito. Un metodo che portava come conseguenza ad una catena di ricatti, alla piaggeria, al servilismo tale da spingere alcuni compagni a gesti di viltà e di delazione fino a sacrificare la vita fisica di altri compagni. La condanna di quel metodo, di quei crimini era tanto urgente e necessaria da far passare in seconda linea il metodo, forse troppo dirompente, scelto da Krusciov”

(…) Per andare sull’onda dei miei pensieri e capire meglio quanto mi sta spiegando Mao, tenendo conto che in Cina tutto si sintetizza in un voto, chiedo un po’ maliziosamente a Mao che voto avrebbe scritto sulla pagella di Stalin. Mao aggrotta le ciglia leggere e, dopo un attimo di silenzio, riprende: “Non c’è dubbio che, per un esame storico, quando sarà possibile farlo oggettivamente, gli errori commessi da Stalin, il suo comportamento antimarxista in troppe occasioni, specie negli ultimi anni, non potranno far dimenticare i suoi grandi meriti. Se dovessi seguire il proverbio cinese e affiancarlo al giudizio che mi chiedi in questo momento, potrei dire che in Stalin vi erano tre parti cattive e sette buone. Sulla pagella segnerei sette”.

Scrollo la testa, visibilmente contrariato. Scoccimarro mi fulmina con lo sguardo per la mia improntitudine, ma, in quel momento, sono giornalista intervistatore dalla testa ai piedi e insisto con Mao: “Sette non è un voto troppo alto per chi ha commesso delitti, assassinii anche dei suoi diretti collaboratori?”

E Mao: “Ho riflettuto meglio. Sulla pagella di Stalin segnerei otto. Perché ilgiudizio deve basarsi su tutta la vita e le opere dell’uomo, ciononostante concordo con Togliatti che  per gli errori di Stalin, oltre a denunciarli perché non si possano più ripetere, bisogna risalire alle cause lontane. La verità è questa: quando uno si fida soltanto di se stesso, spregiando l’esame della realtà e la partecipazione del partito, non ha più nulla a che fare con il marxismo e cade in due errori: quello dell’opportunismo e quello del settarismo. Ritengo che sul terreno del socialismo non vi debba essere posto né per il sospetto né per la vendetta. Ma occorre ricordare che gli uomini non hanno mai un lato solo. Anche quando commettono errori, bisogna riuscire a scoprire il lato positivo e quello negativo. Se il danno che l’errore ha procurato è fatto conoscere nelle sue cause e nelle conseguenze che ha arrecato, la lezione che ne deriva può servire all’educazione dell’individuo e del popolo. In tal caso è utile servirsi anche degli errori”.

“Nella vita di tutti i popoli e nello sviluppo di tutti i partiti”, dice a questo punto Mao, assumendo un tono ieratico come Confucio quando dettava i suoi insegnamenti, “c’è l’eterno contrasto tra il bene e il male, tra momenti di luce e momenti d’ombra. Spesso il luminoso e il fosco si intersecano. Gli uomini non sono tutti uguali, anche quelli che militano nello stesso partito e vivono nello stesso paese. Ecco il perché, per giudicare Stalin, bisogna esaminare quanto ha fatto di buono e di cattivo”.

Mao sorseggia qualche goccia di tè, chiede se siamo stanchi, poi, al nostro diniego, rivolto a Scoccimarro riprende: “Riferite a Togliatti le mie considerazioni. Ditegli che le avanzo nel quadro della necessità di unire e rafforzare il nostro fronte contro quello sempre agguerrito dei nostri nemici. Unità tra noi e sguardo fisso a Mosca, anche se possiamo avere delle divergenze. Queste le esamineremo in un secondo tempo”.

 

 

 

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