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Gramsci sull’URSS e altro nei Quaderni del carcere (appunti)

È difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti, ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di polizia, cioè di tutela di un certo ordine politico e legale. Se questo fosse dimostrato tassativamente, la quistione dovrebbe essere posta in altri termini: e cioè, sui modi e gli indirizzi con cui una tale funzione viene esercitata. Il senso è repressivo o diffusivo, cioè è di carattere reazionario o progressivo? Il partito dato esercita la sua funzione di polizia per conservare un ordine esteriore, estrinseco, pastoia delle forze vive della storia, o la esercita nel senso che tende a portare il popolo a un nuovo livello di civiltà di cui l’ordine politico e legale è un’espressione programmatica? Infatti, una legge trova chi la infrange:

  1. tra gli elementi sociali reazionari che la legge ha spodestato;
  2. tra gli elementi progressivi che la legge comprime;
  3. tra gli elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà che la legge può rappresentare.

La funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva e regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell’orbita della legalità le forze della reazione spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. È regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca. Del resto il funzionamento del Partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito è progressivo esso funziona «democraticamente» (nel senso di un centralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona «burocraticamente» (nel senso di un centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di Partito politico è una pura metafora di carattere mitologico. Continue reading Gramsci sull’URSS e altro nei Quaderni del carcere (appunti)

Perché l’ambiente ha bisogno di una settimana lavorativa più corta

Il dibattito su come ci muoviamo verso modi di vita ecologicamente sostenibili è la discussione più pressante dei nostri tempi. La settimana lavorativa più corta ha un ruolo cruciale da svolgere. Vi propongo un estratto da  Overtime: Why We Need A Shorter Working Week  di Kyle Lewis e Will Stronge che citano ampiamente A Planet To Win, il manifesto del New Green radicale (sull’edizione italiana trovate la mia postfazione). Pensare che a noi di Rifondazione Comunista ci davano dei matti nel 1998 quando chiedevamo la legge per le 35 ore a parità di salario. 

Il dibattito su come noi come specie ci muoviamo verso modi di vita ecologicamente sostenibili (cioè, entro i nostri limiti planetari) è forse la discussione più pressante dei nostri tempi. La settimana lavorativa più corta ha un ruolo cruciale da svolgere. In una formulazione semplice: lavorare meno è sia necessario che desiderabile dal punto di vista ambientale.

Cambiare le metriche 

Con il crollo climatico già alle porte, la pressante necessità di cambiare rotta rispetto ai modelli capitalistici di crescita ha generato nuove discipline e approcci nel campo dell’economia. Uno di questi approcci è indicato come decrescita, un genere di ricerca e attivismo attivo da molti decenni, originariamente ispirato dall’ecologia politica di Gorz. 

Coloro che sostengono la decrescita definiscono il suo approccio come prima di tutto una critica della crescita. La crescita economica è insostenibile di per sé, perché è inseparabile dalle emissioni di gas serra e da altri impatti ambientali negativi. In contrasto con i resoconti che sottolineano la necessità di una “crescita verde” o “crescita socialista”, i sostenitori della decrescita chiedono la detronizzazione della crescita come obiettivo e, al suo posto, l’installazione di un’economia politica focalizzata sull’utilizzo di meno risorse naturali per organizzare la vita E lavoro. Piuttosto che promuovere un modello economico destinato all’austerità, alla scarsità e alla recessione (le conseguenze socio-economiche solitamente associate a economie piatte o non in crescita), i sostenitori della decrescita e della post-crescita sostengono metriche e obiettivi economici che promuovono modi di vita alternativi, basata su principi di condivisione, convivialità, cura e bene comune. Come principale economista ecologico Giorgos Kallis e i suoi colleghi riassumono: Continue reading Perché l’ambiente ha bisogno di una settimana lavorativa più corta

Frédéric Lordon: Ecologia e comunismo. Per un neo-leninismo

Ho tradotto la trascrizione di un intervento del filosofo francese Frédéric Lordon in un dibattito su “ecologia e comunismo” con Andreas Malm. Interessante che il dibattito fosse organizzato tra gli altri da Extinction Rebellion lo scorso 6 giugno. Lordon è noto per il ruolo avuto nei movimenti di lotta contro la legge sul lavoro e la riforma delle pensioni. Il suo ultimo libro si intitola Figures du communisme ma non è stato tradotto in italiano. In questo intervento l’uso del concetto di leninismo è piuttosto provocatorio contro il senso comune orizzontalista e localista e anche contro le varie teorie dell’esodo assai presenti nei movimenti e nell’ecologismo. In realtà la posizione che definisce “leninismo” è propria di gran parte della tradizione socialista/comunista a partire dal Manifesto di Marx e Engels. Non c’è bisogno dirsi leninisti per sentire quella che Lordon definisce “l’urgenza vitale di una linea anticapitalista, il senso di una linea anticapitalista come emergenza planetaria”. Convengono su questo i Democratic Socialist Of America (basta leggere A Planet To Win) e tante/i che non si dicono e non sono leninisti in senso storico e teorico. Lordon usa un riferimento forte come quello al leninismo per polemizzare contro certi orientamenti dominanti nella sinistra radicale e nei movimenti come ha già fatto David Harvey. Va detto che purtroppo in Italia nella rarefazione delle lotte e della sinistra anticapitalista c’è un problema speculare: l’uso – che Lordon definisce “sciocco” – di Lenin come santino o fonte di citazioni destoricizzate e di un simbolismo del comunismo novecentesco persino staliniano come forma di autodifesa identitaria. Il discorso di Lordon è su un altro livello. Molto interessante per chi lavora per una rifondazione comunista.

Essendo molto meno informato di Andreas di ecologia, parlerò d’altro, ritenendo che i nostri due interventi saranno più complementari che contraddittori. In ogni caso, è improbabile che siano contraddittori. Penso che in realtà abbiamo una grande convergenza di opinioni su almeno tre cose – e anche importanti! La prima è da dove cominciare; la seconda è dove andare; e la terza (per quanto possiamo rispondere a questo) è come arrivarci.

Da dove cominciare, se non dal fatto dell’emergenza planetaria, che incrimina senza appello il capitalismo e pone l’unico obiettivo politico coerente di uscirne, di rovesciarlo? Qui si raggiunge facilmente un accordo tra ‘noi’ – il ‘noi’ della sinistra radicale, o la sinistra emancipatrice, insomma la sinistra anticapitalista. Poi sorgono le difficoltà: dove andare, come arrivarci? È qui che iniziano le differenze. Permettetemi di dire subito che né Andreas né io siamo in grado di dare risposte chiare e dettagliate a queste domande, il che probabilmente è positivo. Mi sembra che entrambi abbiamo un’idea sufficiente del problema per essere in grado di concordare sull’essenziale, vale a dire un certo approccio ad esso, un approccio, come ho detto, che suscita disaccordo a sinistra, un disaccordo vecchio ma costantemente aggiornato e investito di nuovi contenuti. Se dobbiamo dare un nome a questo approccio, lo chiamerei neo-leninismo. Poiché non posso parlare di ecologia, vorrei cercare di chiarire cosa intendiamo oggi per neo-leninismo. 
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Imagine, 50 anni dopo

Gli USA sorpassano tutti i record di genocidio

Il 9 settembre 1971 usciva Imagine, il disco di John Lennon che notoriamente non piace alla leghista Susanna Ceccardi e alla missina Giorgia Meloni. Le fascioleghiste seguaci di Trump hanno accusato la canzone di essere marxista, comunista e globalista. I giornalisti progressisti e di centrosinistra le hanno derise. In realtà le due non hanno tutti i torti mentre sono proprio i loro critici a banalizzare il messaggio di Lennon e Ono. Ad aprire la strada alla polemica antilennoniana era stato il giornale di CL ai tempi della strage del Bataclan definenendo  Imagine “un inno alla violenza”

Aveva davvero ragione Jerry Rubin: «I giornali di destra con la loro stupidità spesso sono i nostri migliori alleati». Come ho scritto ripetutamente vanno ringraziati questi esponenti delle destre per l’omaggio involontario al compagno John Lennon, probabilmente la rockstar che più di ogni altra ha gettato il proprio corpo nella lotta negli anni ’60 e ’70.

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Tariq Ali: La guerra al terrore, 20 anni di spargimenti di sangue e delusioni

I talebani hanno celebrato il ventesimo anniversario dell’11 settembre in modo sorprendente. Entro una settimana dall’annuncio da parte degli Stati Uniti che avrebbero ritirato le proprie forze dall’Afghanistan l’11 settembre, i talebani hanno conquistato gran parte del paese e il 15 agosto la capitale Kabul è caduta. La velocità è stata sorprendente, l’acume strategico notevole: un’occupazione di 20 anni si è conclusa in una settimana, mentre gli eserciti fantoccio si disintegravano. Il presidente fantoccio è salito su un elicottero in Uzbekistan, poi su un jet per gli Emirati Arabi Uniti. E’ stato un duro colpo per l’impero americano e i suoi stati subalterni. Nessuna quantità di propaganda può coprire questa debacle.

Poco più di un anno prima degli attacchi dell’11 settembre, Chalmers Johnson, storico della West Coast e un tempo sostenitore delle guerre di Corea e Vietnam, nonché consulente della CIA, pubblicò un libro preveggente intitolato Blowback: The Costs and Consequences of American Empire Il libro, che fu praticamente ignorato quando venne pubblicato per la prima volta ma in seguito è diventato un best seller, si legge sia come un inquietante prologo che come un epitaffio bruciante degli ultimi 20 anni. “Blowback”, come ha avvertito Johnson,

è un modo sintetico per dire che una nazione raccoglie ciò che semina, anche se non conosce o non comprende appieno ciò che ha seminato. Data la loro ricchezza e il loro potere, gli Stati Uniti saranno il primo destinatario nel prossimo futuro di tutte le forme più prevedibili di contraccolpo, in particolare gli attacchi terroristici contro gli americani dentro e fuori le forze armate ovunque sulla terra, inclusi gli Stati Uniti.

Ventiquattr’ore dopo che quel blowbck aveva sbalordito il pianeta l’11 settembre, con messaggi di solidarietà che arrivavano da ogni capitale, compresa l’Avana, il criminale di guerra Donald Rumsfeld, recentemente scomparso, dichiarava in una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale che gli stati recalcitranti, indipendentemente dalla loro coinvolgimento nell’11 settembre, avrebbero dovuto pagarne il prezzo. Di conseguenza, suggeriva: “Perché non dovremmo andare contro l’Iraq, non solo contro Al Qaeda?” Il giorno successivo, Paul Wolfowitz, il numero 2 del Dipartimento della Difesa, amplificava questo messaggio sollecitando una “campagna ampia e sostenuta” che includesse “la fine degli stati che sponsorizzano il terrorismo”. Nel giro di una settimana, lo stesso Grande Decisore, George W. Bush, dava il via a una guerra totale: “Colpiamoli duramente. Vogliamo segnalare che questo è un cambiamento rispetto al passato. Vogliamo indurre altri paesi come la Siria e l’Iran a cambiare punto di vista”. Continue reading Tariq Ali: La guerra al terrore, 20 anni di spargimenti di sangue e delusioni