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VICTOR SERGE: TRENT’ANNI DOPO LA RIVOLUZIONE RUSSA (1947)

Questo articolo di Victor Serge – un’appassionata difesa della rivoluzione russa nonostante il successivo Terrore staliniano – fu pubblicato nel numero di luglio-agosto 1947 delle rivista sindacalista rivoluzionaria francese Revolution prolatarienne fondata da Pierre Monatte. Lo pubblico nella traduzione apparsa sul sito 1917. E’ finalmente a disposizione del lettore italiano nel libro La rivoluzione russa curato da David Bidussa che merita la massima diffusione. Victor Serge è stato forse il più importante autore antistalinista ma, al contrario di altri, non rinnegò mai la rivoluzione russa e il bolscevismo di cui fu militante e testimone diretto. Se non conoscete la biografia di Serge vi consiglio un bel ritratto che gli ha dedicato Tariq Ali sulla London Review Of Books che ho tradotto. Le sue Memorie di un rivoluzionario sono davvero un testo fondamentale per capire il Novecento (vi segnalo la bellissima recensione di Massimo Carlotto) e non mi stanco mai di consigliarle. Serge a mio parere è stato un rifondatore comunista antelitteram perchè, come attesta questo testo scritto poco prima della morte improvvisa, non si poneva il tema di restaurare un’ortodossia ma di rinnovare il socialismo alla luce dell’esperienza storica e delle grandi trasformazioni in atto. Serge non si limitò a denunciare il tradimento da parte di Stalin dei principi del bolscevismo in nome della fedeltà  a Lenin e all’Ottobre come Trotskij. Serge finì con il far arrabbiare lo stesso Trotskij, come racconta la sua biografa Susan Weissman in un articolo che ho tradotto. Quest’anno ricorre il centenario della rivolta di Kronstadt e proprio la riflessione che Serge scrisse su quei fatti tragici  fu una delle cause della rottura (leggi articolo). Mike Davis scrive che Serge è stato “il più grande scrittore operaio del ventesimo secolo. Di sicuro è un testimone imprescindibile. Buona lettura!

Gli anni 1938-1939 segnano una nuova svolta decisiva. Grazie anche alle implacabili «epurazioni», la trasformazione delle istituzioni, come quella dei costumi e dei quadri di uno Stato che si definisce ancora sovietico, pur non essendolo più affatto, si è conclusa. Un sistema perfettamente totalitario ne è il risultato, i cui dirigenti sono i padroni assoluti della vita sociale, economica, politica, spirituale del paese, mentre l’individuo e le masse non godono in realtà  di nessun diritto. La condizione materiale di otto, forse nove decimi della popolazione si è stabilizzata ad un livello bassissimo. Il conflitto aperto con i contadini continua seppure in forme attenuate. 

Ci si rende conto che ha trionfato poco a poco una vera e propria controrivoluzione. L’URSS con il suo intervento nella guerra civile spagnola ha tentato di controllare il governo della Repubblica spagnola e si è opposta con i metodi peggiori “corruzione, ricatto, repressione, assassini“ al movimento operaio che si ispirava a quelli che un tempo erano i suoi ideali; dopo la sconfitta della Repubblica spagnola, di cui Stalin porta una grande parte di responsabilità, l’URSS patteggia rapidamente, prima in segreto, con il III Reich.

Nel momento della crisi più profonda dell’Europa, vediamo improvvisamente le due potenze, quella fascista e quella antifascista, quella bolscevica e quella antibolscevica, lasciar cadere le maschere e unirsi nella spartizione della Polonia. L’URSS estende, con l’assenso della Germania nazista, la sua egemonia sui paesi baltici che si erano distaccati dalla Russia durante le lotte del 1917-1919. Questa svolta nella politica internazionale dal lato russo si spiega solo con gli interessi di una casta dirigente avida e inquieta, ridotta ad una capitolazione morale di fronte al III Reich del quale teme, in primo luogo, la superiorità  tecnica. Le somiglianze interne delle due dittature l’hanno enormemente facilitata.

1. 1917 e 1789, due rivoluzioni

Che terribile cammino abbiamo fatto in questi trent’anni! L’evento più gravido di speranze, il più grandioso di tutti i tempi sembra essersi rivoltato completamente contro di noi. Che cosa resta degli indimenticabili entusiasmi del 1917? Molti uomini della mia generazione, che furono comunisti della prima ora, oggi nutrono verso la Rivoluzione russa solo sentimenti di rancore. Dei partecipanti e dei testimoni quasi nessuno sopravvive. Il Partito di Lenin e di Trotsky è stato fucilato. I documenti sono stati distrutti, nascosti, falsificati. Sopravvivono solo, in numero assai grande, gli emigrati da sempre avversari della rivoluzione. Scrivono libri, insegnano, godono dell’appoggio del conservatorismo, ancora potente, e che, nella nostra epoca di sconvolgimenti mondiali, non dà certo prova di obiettività. Una misera logica, indicandoci con il dito il nero spettacolo dell’URSS staliniana, afferma il fallimento del bolscevismo, dunque quello del marxismo, dunque quello del socialismo.

Aggiramento apparentemente facile dei problemi che stringono il mondo e che non lo lasceranno certo presto. Dimenticate gli altri fallimenti? Che cosa ha fatto il cristianesimo durante le catastrofi sociali? Che cosa è diventato il liberalismo? Che cosa ha prodotto il conservatorismo nelle sue varianti illuminate o reazionarie? Non ha forse generato Mussolini, Hitler, Salazar e Franco? Se volessimo pesare onestamente i fallimenti delle ideologie, avremmo lavoro per lungo tempo. E non è finito.

Ogni avvenimento è insieme definitivo e transitorio. Si prolunga nel tempo sotto forme spesso imprevedibili. Prima di emettere un giudizio sulla rivoluzione russa, ricordiamoci i cambiamenti di volto e di prospettiva della rivoluzione francese. L’entusiasmo di Kant nell’apprendere della presa della Bastiglia… Il Terrore, il Termidoro, il Direttorio, Napoleone. Tra il 1789 e il 1802, la repubblica libertaria, egualitaria e fraterna sembrò rinnegarsi completamente. Le conquiste napoleoniche, creatrici di un ordine nuovo, non tanto nominalmente, ma guardando la carta, colpiscono per la loro similitudine con quelle di Hitler. L’imperatore divenne «l’Orco». Il mondo civile si alleò contro di lui, la Santa Alleanza volle ristabilire e stabilizzare nell’Europa intera l’ancien régime. Tuttavia vediamo che la rivoluzione francese, con l’avvento della borghesia, dello spirito scientifico e dell’industria, ha fecondato il 19° secolo. Ma, trent’anni dopo, nel 1819, al tempo di Luigi XVIII e dello zar Alessandro I, non appariva forse come il più costoso dei fallimenti storici? Quante teste tagliate, quante guerre, per arrivare ad una penosa restaurazione monarchica.

2. Le falsità  sulla rivoluzione russa

É naturale che la falsificazione della storia sia oggi all’ordine del giorno. Tra le scienze inesatte, la storia è quella colpisce di più gli interessi materiali e psicologici. Le leggende, gli errori, le interpretazioni tendenziose pullulano sulla rivoluzione russa, nonostante sia facile informarsi sui fatti. Ma è evidentemente più comodo scrivere e parlare senza informarsi.

Si afferma spesso che «il colpo di forza bolscevico dell’ottobre-novembre 1917 rovesciò una democrazia sul nascere». Niente di più falso: la repubblica non era ancora stata proclamata in Russia, non esisteva alcuna istituzione democratica seria al di là  dei Soviet o dei Consigli degli operai, dei contadini e dei soldati. Il governo provvisorio, presieduto da Kerenski, si era rifiutato di mettere in atto la riforma agraria, di aprire le trattative di pace rivendicate dalla volontà  popolare, di prendere misure reali contro la reazione. Viveva transitoriamente tra due vasti complotti permanenti: quello dei generali e quello delle masse rivoluzionarie. Nulla faceva prevedere l’instaurazione pacifica di una democrazia sociale, la sola che sarebbe stata ipoteticamente praticabile. A partire da settembre 1917, l’alternativa è quella tra la dittatura dei generali reazionari e la dittatura dei Soviet. Due storici opposti sono pienamente d’accordo su questo: Trotsky e l’uomo di stato liberale di destra Miliukov. La rivoluzione sovietica o bolscevica fu il risultato dell’incapacità  della rivoluzione democratica, moderata, instabile e inoperante che la borghesia liberale e i partiti socialisti attendisti dirigevano dopo la caduta dell’autocrazia.

Si afferma ancora che l’insurrezione del 7 novembre (25 ottobre, secondo il vecchio stile del calendario giuliano) 1917 fu opera di una minoranza di cospiratori, il Partito bolscevico. Niente di più contrario rispetto ai fatti reali. Il 1917 fu un anno di azioni di massa, sbalorditivo per la molteplicità, la varietà, la potenza, la perseveranza delle iniziative popolari la cui ascesa faceva crescere il bolscevismo. Le sommosse agrarie si estendevano in tutta la Russia. L’insubordinazione annichiliva la vecchia disciplina nell’esercito. Kronstadt e la flotta del Baltico avevano categoricamente rifiutato di obbedire al governo provvisorio e l’intervento di Trotsky di fronte al Soviet della base navale aveva solo evitato un conflitto armato. Il Soviet di Tashkent, nel Turkestan, aveva preso il potere per proprio conto. Kerenski minacciava il Soviet di Kaluga con l’artiglieria. Sul Volga, un esercito di 40.000 uomini rifiutava l’obbedienza. Nei sobborghi di Pietrogrado e di Mosca si formavano le guardie rosse operaie. La guarnigione di Pietrogrado si poneva agli ordini del Soviet. Nei Soviet, la maggioranza passava pacificamente e senza brogli dai socialisti moderati ai bolscevichi, d’altra parte sorpresi essi stessi da questo cambiamento. I socialisti moderati si allontanavano da Kerenski. Quest’ultimo poteva oramai contare solo su militari divenuti totalmente impopolari. Ecco perché l’insurrezione vinse a Pietrogrado quasi senza spargimento di sangue, nell’entusiasmo. Rileggiamo sull’argomento le belle pagine di John Reed e di Jacques Sadoul, testimoni oculari. Il complotto bolscevico fu letteralmente sostenuto da una colossale ondata montante.

Conviene ricordare che l’impero era crollato nel febbraio-marzo 1917 sotto la spinta del popolo disarmato dei sobborghi di Pietrogrado. La fraternizzazione spontanea della guarnigione con le manifestazioni operaie decise delle sorti dell’autocrazia. Si cercarono più tardi gli sconosciuti che avevano preso l’iniziativa di quella fraternizzazione: parecchi vennero riconosciuti, ma la maggioranza di loro restò nell’anonimato. I dirigenti e i militanti più qualificati di tutti i partiti rivoluzionari era in quel momento all’estero o in prigione. I piccoli gruppi esistenti a Pietrogrado furono così sorpresi e superati dagli eventi tanto che il gruppo bolscevico pensò alla pubblicazione di un appello per la ripresa del lavoro nelle fabbriche! Quattro mesi più tardi, l’esperienza del governo di coalizione dei socialisti moderati e della borghesia liberale suscitava già  una collera così profonda che, all’inizio del mese di luglio 1917, la guarnigione e i sobborghi organizzano da soli una grande manifestazione armata con la parola d’ordine del potere ai Soviet. I bolscevichi disapprovano questa iniziativa presa da ignoti, si uniscono di malincuore al movimento per portarlo ad una conclusione dolorosa e pericolosa. Pensano, probabilmente a ragione, che il paese non seguirebbe la capitale. Diventano naturalmente i capri espiatori. La persecuzione e la calunnia («agenti della Germania») si abbattono su di loro. A partire da quel momento, sanno che se non si mettono alla testa del movimento di massa, diventeranno impopolari e i generali metteranno in atto il loro colpo di forza.

Il generale Kornilov si getta nellavv’entura nel settembre 1917, con la complicità manifesta di una parte del governo Kerenski. Lenin e Zinoviev si nascondono, Trotsky è in prigione, i bolscevichi sono braccati. Le truppe di Kornilov si disgregano da sole al primo contatto con i ferrovieri e gli agitatori operai.

I funzionari dell’autocrazia videro molto bene la rivoluzione che veniva; non seppero impedirla. I partiti rivoluzionari l’aspettavano; non seppero, né avrebbero potuto provocarla. Una volta scattato l’evento, non restava loro che parteciparvi con maggiore o minore chiaroveggenza e volontà.

3. Le leggende sui bolscevichi

I bolscevichi assunsero il potere perché, nella selezione naturale che si era prodotta tra i partiti rivoluzionari, essi si dimostrarono i più adatti ad esprimere, in modo coerente, chiaroveggente e volontario, le aspirazioni delle masse in azione. Conservarono il potere, vinsero la guerra civile perché le masse popolari li sostennero fino alla fine, a dispetto di tante esitazioni e di conflitti, dal Baltico al Pacifico. Questo grande fatto storico é stato riconosciuto dalla maggior parte dei nemici russi del bolscevismo. Elena Kusslova, pubblicista liberale dell’emigrazione, scriveva ancora recentemente che è «incontestabile che il popolo non sostenne né il movimento dei Bianchi […] né la lotta per l’Assemblea costituente [… ]». I Bianchi rappresentavano la controrivoluzione monarchica, i costituenti l’antibolscevismo democratico. Così, fino alla fine della guerra civile, nel 1920-1921, la rivoluzione russa ci appariva come un immenso movimento popolare a cui il Partito bolscevico forniva un cervello e un sistema nervoso di dirigenti e di quadri.

Si sostiene che i bolscevichi vollero subito il monopolio del potere. Altra leggenda! Temevano l’isolamento del potere. Numerosi di loro furono, all’inizio, sostenitori di un governo di coalizione socialista [tra gli altri Kamenev e Zinoviev]. Lenin e Trotsky fecero rigettare in principio la coalizione con i partiti socialisti moderati che avevano condotto la rivoluzione di marzo alla sconfitta e che rifiutavano di riconoscere il regime dei Soviet. Ma il Partito bolscevico chiese ed ottenne la collaborazione del Partito socialista rivoluzionario di sinistra, partito contadino diretto da intellettuali idealisti piuttosto ostili al marxismo. A partire da novembre 1917 fino al 6 luglio 1918, i socialisti rivoluzionari di sinistra parteciparono al governo. Rifiutarono, come un buon terzo dei bolscevichi noti, di accettare la pace di Brest-Litovsk e, il 6 luglio 1918, dettero vita a Mosca ad una battaglia insurrezionale proclamando la propria intenzione di «governare da soli» e di «ricominciare la guerra contro l’imperialismo tedesco». Il loro messaggio radiodiffuso in quel giorno fu la prima proclamazione di un governo a partito unico! Furono vinti e i bolscevichi dovettero governare da soli. A partire da quel momento, la loro responsabilità  diventa più pesante, la loro mentalità  cambia.

Essi formavano, dopo la scissione del Partito operaio socialdemocratico russo in maggioritari (bolscevichi) e minoritari (menscevichi), un partito profondamente differente dagli altri partiti rivoluzionari russi? Gli viene volentieri attribuito un carattere autoritario, intollerante, amorale nella scelta dei mezzi; un’organizzazione centralizzata e disciplinata contenente in embrione lo statalismo burocratico; un carattere dittatoriale e disumana. Alcuni autori eruditi e altri ignoranti citano a tale proposito l’«amoralità» di Lenin, il suo «giacobinismo proletario», il suo «rivoluzionarismo professionale». Una menzione del romanzo pamphlet di Dostoevskij, I Demoni, e il saggista pensa di averci chiarito i problemi che ha invece confuso.

Tutti i partiti rivoluzionari russi, a partire dagli anni 1870-1880, furono in realtà autoritari, fortemente centralizzati e disciplinati nell’illegalità, per l’illegalità; tutti formarono dei «rivoluzionari di professione», cioè degli uomini che vivevano per la lotta; tutti potrebbero essere occasionalmente accusati di una certa amoralità  pratica, benché sia giusto riconoscere a tutti loro un idealismo ardente e disinteressato. Quasi tutti furono imbevuti di mentalità  giacobina, proletaria o meno. Tutti produssero eroi e fanatici. Tutti, tranne i menscevichi, aspiravano alla dittatura, e i menscevichi georgiani fecero ricorso a metodi dittatoriali. Tutti i grandi partiti erano statali per struttura e per le finalità che si prefiggevano. In realtà, esisteva, al di là  delle importanti divergenze dottrinali, una mentalità  rivoluzionaria unica.

Ricordiamoci il temperamento autoritario dell’anarchico Bakunin e o suoi metodi di organizzazione clandestina all’interno della Prima Internazionale. Nella sua Confessione, Bakunin preconizza una dittatura illuminata, ma senza tregua, esercitata per il popolo  [un punto di vista allora contestato, per esempio nell’opera del socialista libertario belga Hem Day – dal suo vero nome Marcel Dieu – autore di La Légende de la dictature chez Bakounine, 1935, ndr]. Il Partito socialista rivoluzionario, imbevuto di ideali repubblicani, più radicale che socialista, costituì, per combattere l’autocrazia attraverso il terrorismo, un «apparato» rigorosamente centralizzato, disciplinato, autoritario, che divenne un terreno propizio per le provocazioni poliziesche. La socialdemocrazia russa, nel suo insieme, mirava alla conquista dello stato. Nessuno, a proposito della futura rivoluzione russa, usò un linguaggio più giacobino del suo dirigente Georgij Valentinovi Plechanov [1856-mai 1918]. Il governo Kerenski, la cui forza era costituita dai socialisti rivoluzionari e dai menscevichi, usò instancabilmente un linguaggio dittatoriale, anche se, certo, puramente velleitario. Perfino gli anarchici, nelle regioni occupate dall’Armata nera di Nestor Machno, esercitarono una dittatura autentica, accompagnata da confische, requisizioni, arresti, esecuzioni. E Machno fu chiamato «batko», piccolo padre, capo.

I socialdemocratici menscevichi di destra, come Fëdor Dan e Iraklij Tsereteli, auspicavano un potere forte. Tsereteli raccomandò la soppressione del bolscevismo prima che fosse troppo tardi. I menscevichi di sinistra, della tendenza di Julius Martov, sembrano essere stati lun’ico gruppo politico talmente legato ad una concezione democratica della rivoluzione da costituire, da un punto di vista filosofico, una felice eccezione.

Le caratteristiche proprie del bolscevismo, che gli conferiscono una innegabile superiorità  sui partiti rivali con cui condivide largamente la mentalità  comune sono: a) la convinzione marxista; b) la dottrina dell’egemonia del proletariato nella rivoluzione; c) l’intransigente internazionalismo; d) l’unità  di pensiero e di azione. In molte persone, l’unità di pensiero e di azione porta alla fede nella propria volontà.

Il realismo marxista del 1917 ci sembra oggi un po’ schematico. Il mondo è cambiato, le lotte sociali sono divenute molto più complesse di quanto fossero allora. Durante la rivoluzione russa, quel realismo, sostenuto da forti conoscenze economiche e storiche, fu all’altezza delle circostanze. Conteneva antidoti efficaci contro la fraseologia liberale, il doppio gioco, il temporeggiamento interessato, la rinuncia onorevole e ipocrita. I socialisti moderati pensavano che la Russia stesse compiendo una «rivoluzione borghese», destinata a aprire al capitalismo un’era di sviluppo; e che, così, il paese non potesse che darsi lo statuto politico di una democrazia borghese. I bolscevichi pensavano che solo il proletariato potesse fare la rivoluzione «borghese» e, così, non poteva superarla; che il socialismo non potesse trionfare in un paese così arretrato, ma che il compito di una Russia socialisteggiante fosse quello di dare l’impulso al movimento operaio europeo. Lenin non prevedeva, nel 1917, la nazionalizzazione completa della produzione, ma solo il suo controllo operaio; più avanti, pensò ad un regime misto, tra capitalismo e statalizzazione; fu nel luglio 1918 che lo scatenamento della guerra civile impose nazionalizzazioni complete come misure immediate di difesa.

L’intransigenza internazionalista dei bolscevichi si basava sulla fiducia in una rivoluzione europea prossima, più matura e più feconda della rivoluzione russa. Questa visione del futuro non era solo loro. Era parte del fondo comune dell’ideologia socialista europea, nonostante i grandi partiti non credessero più alla rivoluzione. Il continuatore tedesco di Marx, Karl Kautsky, era stato fino al 1908, un teorico della prossima rivoluzione socialista; Rosa Luxemburg, Franz Mehring, Karl Liebknecht professavano la stessa convinzione. La differenza tra i bolscevichi e gli altri socialisti sembra essere stata di natura psicologica e dovuta alla formazione particolare dell’intelligentsia rivoluzionaria e del proletariato russi. Nell’impero degli zar non c’era posto né per l’opportunismo parlamentare né per i compromessi quotidiani; una realtà  sociale semplice e brutale ingenerava una fede attiva e integra. In tal senso, i bolscevichi furono più russi, e più all’unisono con le masse russe, dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi, i cui quadri erano penetrati in una mentalità occidentale, evoluzionistica, democratica secondo le tradizioni dei paesi capitalistici avanzati.

4. E ora gli errori

Apriamo il difficile capitolo degli errori. Non senza considerare che, in uno studio così breve, non sia possibile prendere in esame gli errori e i crimini delle potenze e dei partiti che combatterono la rivoluzione sovietico-bolscevica. Senza questo decisivo contesto, saremo obbligati ad accontentarci di una visione unilaterale. Scrivevo nel 1939, nel mio Ritratto di Stalin, pubblicato a Parigi (Grasset, 1940):

«[…] l’errore più incomprensibile – perché è stato deliberato – che questi socialisti (i bolscevichi) così imbevuti di conoscenze storiche commisero, fu quello di creare la Commissione straordinaria di repressione della Controrivoluzione, della Speculazione, dello Spionaggio, della Diserzione, divenuta in sigla la CeKa, che giudicava gli accusati e i semplici sospetti senza ascoltarli né incontrarli, senza concedere loro dunque nessuna possibilità di difesa […], pronunciava i propri decreti e procedeva direttamente alle esecuzioni. Che altro era se non una Inquisizione? Lo stato di assedio non può non essere accompagnato da rigore, una aspra guerra civile non può non prevedere misure straordinarie, senza dubbio; Ma potevano proprio dei socialisti dimenticare che la pubblicità dei processi è l’unica vera garanzia contro l’arbitrio e la corruzione e porsi perfino al di sotto delle procedure sommarie di Fouquier-Tinville [il pubblico accusatore durante il regime del terrore nella Francia rivoluzionaria, ndr]? L’errore è evidente, le conseguenze sono state terribili, poiché la Ghepeu, cioè la CeKa amplificata con un nuovo nome, ha finito per sterminare l’intera generazione rivoluzionaria bolscevica […]».

Resta solo da notare in favore del Comitato centrale di Lenin alcune serie circostanze attenuanti agli occhi del sociologo. La giovane repubblica viveva sotto pericoli mortali. La sua indulgenza nei confronti di generali come Krasnov e Kornilov doveva costarle fiumi di sangue. L’ancien régime aveva più volte usato il terrore. L’iniziativa del terrore era stata presa dai Bianchi, fin dal novembre 1917, con il massacro degli operai dell’arsenale del Cremlino; e ripresa dai reazionari finlandesi nei primi mesi del 1918, su più larga scala, prima che il «terrore rosso» non fosse proclamato in Russia. Le guerre sociali del 19° secolo, a partire dalle giornate di giugno 1848 a Parigi dalla Comune de Parigi nel 1871, erano state caratterizzate dallo sterminio in massa dei proletari vinti. I rivoluzionari russi sapevano ciò che li attendeva in caso di sconfitta. Tuttavia la CeKa fu benevola agli inizi, fino all’estate 1918. E quando il «terrore rosso» fu proclamato dopo delle sollevazioni controrivoluzionarie, dopo gli assassinii dei bolscevichi Volodarski [il 20 giugno 1918 da parte del socialista rivoluzionario di destra Grigory Semyonov, ndr] e Moissei Solomonocitch Ouritski [assassinato il 30 agosto 1918, ndr], dopo due attentati contro Lenin [il 30 agosto 1918, da parte di Fanny Kaplan, socialista rivoluzionaria, ndr], la CeKa si mise a fucilare ostaggi, sospetti e nemici, e cercava ancora di trattenere, canalizzare e controllare il furore popolare. Feliks Dzeržinskij [il 20 dicembre 1917, il Consiglio dei Commissari del popolo fonda la Commissione panrussa straordinaria per combattere la controrivoluzione e il sabotaggio, la Ve?eka, più nota con il nome di CeKa; Dzeržinskij ne assumerà la direzione, ndr] temeva gli eccessi delle CeKa locali; la statistica degli agenti della CeKa fucilati essi stessi sarebbe a questo proposito particolarmente edificante.

Riaprendo ultimamente un libretto mal tradotto in francese, i Souvenirs d’un commissaire du peuple del socialista rivoluzionario di sinistra Steinberg, ho trovato questi due episodi significativi. Dopo i due colpi di arma da fuoco sparati contro Lenin alla fine del 1917, una delegazione operaia si recò da Vladimir Ilitch per sostenere che se la controrivoluzione avesse fatto colare anche solo una goccia del suo sangue, il proletariato di Pietrogrado si sarebbe vendicato moltiplicando per cento il colpo. Steinberg, che allora collaborava con Lenin, nota l’imbarazzo di quest’ultimo. L’affare non viene ingigantito, proprio al fine di evitare conseguenze tragiche. So peraltro che i due socialisti rivoluzionari responsabili della sparatoria furono arrestati, risparmiati e che più tardi aderirono al Partito bolscevico. Due ministri liberali, Andrei Shingarev e Kokoshkin, erano malati in prigione; venne ordinato il loro trasferimento in ospedale. Là furono assassinati nel loro letto. Lenin, informato del delitto, ne fu sconvolto, il governo aprì un’inchiesta e scoprì che gli autori erano dei marinai rivoluzionari, sostenuti e protetti dall’insieme dei loro camerati. Disapprovando la «mansuetudine» degli uomini al potere, i marinai vi avevano supplito con un’iniziativa terrorista. Così, gli equipaggi della flotta rifiutarono di consegnare i colpevoli. I commissari del popolo dovettero «lasciar cadere» l’affare. Potevano, nel momento in cui la devozione dei marinai era quotidianamente necessaria per la salvezza della rivoluzione, aprire un conflitto con il terrorismo spontaneo?

5. La rivoluzione non vince in Occidente

Nel 1920, la pena di morte fu abolita in Russia. Si credeva che la guerra civile stesse per finire. Avevo la sensazione che tutti nel partito desiderassero una normalizzazione del regime, la fine dello stato d’assedio, un ritorno alla democrazia sovietica, la limitazione dei poteri della CeKa, se non la sua soppressione. Tutto ciò era possibile, la salvezza della rivoluzione era possibile. Il paese stremato voleva cominciare la ricostruzione. Le sue riserve di entusiasmo e di fede restavano grandi. L’estate 1920 segna una data fatale. Occorre molta malafede per gli storici per non constatarlo mai. Tutta la Russia viveva su di una speranza di pacificazione nel momento in cui Józef Pi?sudski lanciò le armate polacche sull’Ucraina. Quella aggressione coincise con il riconoscimento accordato dalla Francia e dall’Inghilterra al generale barone Wrangel [1878-1928] che occupava la Crimea. L’irrigidimento della rivoluzione fu istantaneo. Battuta la Polonia, il Comitato centrale pensò di provocarvi una rivoluzione sovietica. La sconfitta dell’Armata Rossa davanti a Varsavia fece fallire il progetto di Lenin, ma il peggio fu che all’indomani di quella penosa guerra, in un paese insanguinato e impoverito, non fu più questione né di abolire la pena né di cominciare la ricostruzione sulla basi di una democrazia sovietica.

La miseria e il pericolo sclerotizzavano lo Stato-Partito in quel regime economico, intollerabile per la popolazione e non praticabile in sé, che è stato definito il «comunismo di guerra». All’inizio del 1921, il sollevamento dei marinai di Kronstadt fu proprio una protesta contro questo regime economico e contro la dittatura del partito. Quali che siano le sue intenzioni e la sua probità, un partito che governa un paese affamato non è in grado di conservare la propria popolarità. La spontaneità delle masse si era spenta; i sacrifici e le privazioni logoravano la minoranza attiva della rivoluzione. I ghiacci invernali, le razioni insufficienti, le epidemie, le requisizioni nelle campagne diffondevano il rancore, una sorta di disperazione, l’ideologia confusa della controrivoluzione per il pane bianco. Se il Partito bolscevico avesse lasciato le redini del potere, chi, in quella situazione, ne avrebbe preso il posto? Il suo dovere non era forse quello di tenere? Ed ebbe ragione a tenere. Ebbe il torto di cadere nel panico davanti a Kronstadt insorta, perché gli era possibile resistere in parecchi modi diversi, e noi lo sappiamo tutti, noi che eravamo là, a Pietrogrado.

Gli errori del potere si congiungono attorno a Kronstadt-1921. I marinai si ribellarono solo perché Michail Kalinin rifiutò brutalmente di ascoltarli. Laddove occorreva persuasione e comprensione, il presidente del Comitato esecutivo dei Soviet usò solo la minaccia e l’insulto. La delegazione di Kronstadt al Soviet di Pietrogrado, invece di essere fraternamente ricevuta per delle trattative, venne arrestata dalla CeKa. La verità sul conflitto fu nascosta al paese e al partito dalla stampa che, per la prima volta, mentì spudoratamente, pubblicando la falsa notizia secondo cui era un generale bianco, Kozlovski, ad esercitare l’autorità a Kronstadt. La mediazione proposta da anarchici americani influenti e benevoli, Emma Goldman e Aleksandr Berkman, fu respinta. I cannoni tuonarono in una battaglia fratricida e la CeKa, successivamente, fucilò i prigionieri. Se, come indica Trotsky, i marinai erano cambiati rispetto al 1918 e esprimevano solo le aspirazioni dei contadini arretrati, occorre riconoscere che il potere, anche lui, era cambiato.

Lenin, proclamando la fine del «comunismo di guerra» e la «nuova politica economica» (NEP), soddisfece le rivendicazioni economiche di Kronstadt, dopo la battaglia e il massacro. Riconobbe così che il Partito e lui stesso si erano arenati conservando un regime insostenibile e del quale Trotsky aveva del resto denunciato i pericoli proponendo dei cambiamenti già  un anno prima.

La nuova politica economica aboliva le requisizioni nelle campagne, sostituendole con una imposta in natura, ristabiliva la libertà  di commercio e della piccola impresa, allentava in poche parole l’armatura mortale della statalizzazione completa della produzione e degli scambi. Sarebbe stato naturale allentare allo stesso tempo anche l’armatura del governo, con una politica di tolleranza e di riconciliazione verso gli elementi socialisti e libertari disposti a porsi sul terreno della costruzione sovietica. Rafai? Abramowicz [1880-1963, membro del BUND, vicino a Martov, venne arrestato nel 1918, poi liberato grazie ad una campagna condotta da Friedrich Adler e lasciò l’URSS nel 1920, ndr] rimprovera giustamente ai bolscevichi di non essersi posti nel 1921 su questa strada. Il Comitato centrale, al contrario, mise menscevichi ed anarchici fuori legge. Un governo di coalizione socialista, se si fosse allora formato, avrebbe comportato certi pericoli interni, tuttavia meno grandi, è provato, di quelli del monopolio del potere… In effetti, il malcontento del Partito e della classe operaia obbligò il Comitato centrale a instaurare ormai lo stato d’assedio, certo, uno stato d’assedio clemente, nel Partito stesso. L’opposizione operaia venne condannata, un’epurazione comportò delle espulsioni.

Quali ragioni profonde motivarono la decisione del Comitato centrale di mantenere e rafforzare il monopolio del potere? In primo luogo, in quelle crisi, i bolscevichi confidavano solo il loro stessi. Portando da soli pesantissime responsabilità, singolarmente aggravate dal dramma di Kronstadt, temevano di aprire la competizione politica con i socialdemocratici menscevichi e con il partito «contadino» dei socialisti rivoluzionari di sinistra. In fine e soprattutto, credevano alla rivoluzione mondiale, cioè alla rivoluzione europea imminente, imminente perlomeno nell’Europa centrale. Un governo di coalizione socialista e democratica avrebbe indebolito l’Internazionale comunista chiamata a dirigere le prossime rivoluzioni…

Probabilmente stiamo toccando l’errore più grave del partito di Lenin e Trotsky. Come sempre nel pensiero creatore, l’errore si confonde qui alla verità, al sentimento volontario, all’intuizione soggettiva. Non si avvia un’impresa senza crederci, senza misurarne i dati tangibili, senza volerne il successo, senza violentarne gli aspetti problematici e l’incertezza. Ogni azione si proietta dal presente reale verso l’avvenire incognito. L’azione giustificata dall’intelligenza è quella che si proietta in avanti con saggezza. La dottrina della rivoluzione europea era giustificata sotto questo angolo? Non penso che siamo in grado di rispondere in modo soddisfacente a questo quesito. Pretendo solo di delimitarlo.

Non c’è più dubbio oggi del fatto che il regime capitalista stabile, in crescita, relativamente pacifico, del 19° secolo finisca con la Prima guerra mondiale. I marxisti rivoluzionari che annunciano allora un’era di rivoluzioni che avrebbe dato fuoco al pianeta intero e, se il socialismo non fosse riuscito a imporsi nei principali paesi d’Europa, un’era di barbarie e un altro «ciclo di guerre e di rivoluzioni», secondo le parole di Lenin, che d’altra parte citava Engels, hanno avuto ragione.

I conservatori, gli evoluzionisti e i riformisti che credettero all’avvenire dell’Europa borghese, sapientemente suddivisa dal trattato di Versailles [1919], ridisegnata a Locarno [1925], nutrita con frasi vuote da parte della Società delle Nazioni (SDN), appaiono oggi politicanti ciechi. Che altro stiamo vivendo, se non una trasformazione mondiale dei rapporti sociali, dei regimi produttivi, delle relazioni intercontinentali, degli equilibri di forze, delle idee e dei costumi, cioè una rivoluzione mondiale così viva in Indonesia [si fa qui riferimento alla proclamazione dell’indipendenza dell’agosto 1945 che porterà ad un conflitto militare con l’Olanda e a un processo di radicalizzazione sociale, ndr] quanto incerta e balbuziente in Europa? L’America, con i suoi progressi tecnici prodigiosi, le sue schiaccianti responsabilità mondiali, le sue spinte sociali contraddittorie, vi occupa un posto privilegiato, come è il caso per il paese industriale più ricco e meglio organizzato; ma nulla di ciò che accade in Grecia, in Giappone, nulla di ciò che si costruisce nel segreto assoluto delle zone artiche dell’URSS, nulla di quel che si trama a Trieste o a Madrid può essergli estraneo…

I marxisti rivoluzionari della scuola bolscevica auspicavano, volevano, la trasformazione rivoluzionaria dell’Europa e del mondo attraverso la presa di coscienza delle masse lavoratrici, attraverso l’organizzazione razionale ed equa di una società nuova; intendevano lavorare perché l’uomo dominasse finalmente il proprio destino. E’ là che si sono sbagliati, dato che sono stati vinti. La trasformazione del mondo si produsse nella confusione delle istituzioni, dei movimenti e delle credenze, senza l’avvento della coscienza chiara, senza l’avvento di un umanismo rinnovato e perfino mettendo in pericolo tutti i valori, tutte le speranze degli uomini. Le tendenze generali peraltro sono proprio quelle che il socialismo di azione indicava già dal 1917-1920: verso la collettivizzazione e la pianificazione dell’economia, verso l’internazionalizzazione del mondo, verso l’emancipazione dei popoli delle colonie, verso la formazione di democrazie di massa di tipo nuovo. L’alternativa resta ancora quella che il socialismo prevedeva: la barbarie e la guerra, la guerra et la barbarie, con un mostro a due teste.

I bolscevichi vedevano, a ragione, sembra, la salvezza della rivoluzione russa nella vittoria possibile di una rivoluzione tedesca. La Russia agricola e la Germania industriale, sotto regimi socialisti, avrebbero avuto uno sviluppo pacifico e fecondo sicuro. La repubblica dei Soviet non avrebbe conosciuto, in questa ipotesi, il soffocamento burocratico all’interno… La Germania si sarebbe sottratta dalle tenebre del nazismo e della catastrofe. Il mondo avrebbe senza dubbio conosciuto altre lotte, ma nulla ci autorizza a pensare che queste lotte avrebbero potuto produrre i macchinari infernali dell’hitlerismo e dello stalinismo. Tutto ci porta a credere al contrario che una rivoluzione tedesca trionfante all’indomani della Prima guerra mondiale sarebbe stata infinitamente feconda per lo sviluppo sociale dell’umanità. Speculazioni di questo tipo sulle varianti possibili della storia sono legittime e perfino necessarie se si vuole comprendere il passato, orientarsi nel presente; per condannarle, occorrerebbe considerare la storia come un concatenamento di fatalità meccaniche e non più come lo svolgimento della vita umana nel tempo.

Battendosi per la rivoluzione, gli spartachisti tedeschi, i bolscevichi russi e i loro compagni di tutti i paesi si battevano per impedire il cataclisma mondiale al quale siamo appena sopravvissuti [la Seconda Guerra mondiale]. Lo sapevano. Erano mossi da una generosa volontà di liberazione. Chiunque li avvicinò non potrà mai dimenticarlo. Pochi uomini furono altrettanto devoti alla cusa degli uomini. C’è ora una moda che vuole imputare ai rivoluzionari degli anni 1917-1927 un’intenzione di egemonia e di conquista mondiale, ma possiamo vedere bene quali rancori e quali interessi lavorino per snaturare in tal modo la verità storica.

Nell’immediato, l’errore del bolscevismo fu comunque patente. L’Europa era instabile, la rivoluzione socialista vi sembrava teoricamente possibile, razionalmente necessaria, ma essa non si fece. L’immensa maggioranza della classe operaia dei paesi occidentali si rifiutò di impegnarsi o di sostenere la lotta; credeva alla ripresa del prgresso sociale di prima della guerra; ritrovò sufficiente benessere per temere i rischi; si lasciò nutrire dalle illusioni. La socialdemocrazia tedesca, guidata da dirigenti mediocri e moderati, temette i costi generali di una rivoluzione facilmente iniziata nel novembre 1918 e seguì le vie democratiche della repubblica di Weimar… Quando si rimprovera ai bolscevichi di aver attuato una rivoluzione con la violenza e con la dittatura del proletariato, sarebbe semplicemente giusto considerare che l’esperienza contraria, quella del socialismo moderato, riformista, che tentò di sfruttare a fondo le possibilità della democrazia borghese, si è protratta in Germania fino all’avvento di Hitler.

I bolscevichi si sono ingannati sulla capacità politica e sull’energia delle classi operaie dell’Occidente e, in primo luogo, della classe operaia tedesca. Quell’errore del loro idealismo militante comportò le conseguenze più gravi. Persero il contatto con le masse occidentali. L’Internazionale comunista divenne un’appendice dello Stato-Partito sovietico. La dottrina del «socialismo in un solo paese» nacque proprio dalla delusione. A loro volta, le tattiche stupide e anche scellerate dell’Internazionale stalinizzata facilitarono in Germania il trionfo del nazismo.

6. La svolta del 1927

Un primo bilancio della rivoluzione russa deve essere prodotto verso il 1927. Sono trascorsi dieci anni. La dittatura del proletariato è divenuta dal 1920-1921, date approssimative e discutibili, la dittature del Partito comunista, a sua volta sottoposto alla dittatura della «vecchia guardia bolscevica». Questa «vecchia guardia» constituisce in generale una élite notevole, intelligente, disinteressata, attiva, pertinace. I risultati acquisiti sono grandiosi. All’estero, l’URSS è rispettata, riconosciuta, spesso ammirata. All’interno, la ricostruzione economica si è conclusa, sulle rovine lasciate dalla guerra, con le sole risorse del paese e dell’energia popolare. Un nuovo sistema di produzione collettivista è stato sostituito al capitalismo e funzione assai bene. Le masse lavoratrici in Russia hanno dimostrato la propria capacità di vincere, di organizzare e di produrre. Si sono consolidati nuovi costumi, un nuovo sentimento di dignità del lavoratore. Il sentimento della proprietà privata, che i filosofi della borghesia consideravano ccome innato, è in via di estinguersi naturalmente. L’agricoltura si è ricostruita a un livello che raggiunge e comincia a superare quello del 1913. Il salario reale dei lavoratori supera assai sensibilmente il livello del 1913, cioè quello di prima della guerra. E’ sorta una nuova letteratura piena di vigore. Il bilancio della rivoluzione proletaria è nettamente positivo.

Ma non si tratta più di ricostruire, si tratta di costruire: di allargare la produzione, di creare nuove industrie (automobile, aviazione, chimica, alluminio…); si tratta di rimediare alla sproporzione tra un’agricoltura ristabilita e un’industria debole. L’URSS è isolata e minacciata. Si tratta di provvedere alla sua difesa. I marxisti non hanno illusioni sul patto Briand-Kellog che mette «fuorilegge» la guerra [Patto firmato nel 1928, a Parigi, che «condanna il ricorso alla guerra», senza sanzioni, sottoscritto da 63 paesi, ndr]…

Il regime è a un bivio, il Partito è lacerato dalla lotta per il potere, e per il programma del potere, che contrappone dei vecchi bolscevichi gli uni contro gli altri. I continuatori più lucidi dei tempi eroici sono raggruppati attorno a Trotsky. Possono commettere errori tattici, possono formulare tesi insufficienti, possono esitare, ma il loro merito e il loro coraggio non possono essere negati. Preconizzano l’industrializzazione pianificata, la lotta contro le forze reazionarie e in primo luogo contro la burocrazia, l’internazionalismo militante, la democratizzazione del regime, a cominciare da quella del Partito. Vengono vinti dalla gerarchia dei segretari che si confonde con la gerarchia dei commissari della Ghepeu, sotto l’egida del segretario generale, l’oscuro georgiano di un tempo, Stalin.

Migliaia di fondatori dell’URSS, dando esempio di devozione all’idea socialista, passano così dal potere alla prigione o alla deportazione. Le tesi che vengono opposte loro sono contraddittorie, ma poco importa. Il principale fatto essenziale è che nel 1927-1928, attraverso un colpo di forza perpetrato nel Partito, lo Stato-Partito rivoluzionario diventa uno Stato poliziesco-burocratico, reazionario, sul terreno sociale creato dalla rivoluzione. Il cambio di ideologia si accentua brutalmente. Il marxismo delle formule piatte elaborate negli uffici si sostituisce al marxismo critico degli uomini pensanti. Si crea il culto del Capo. Il «socialismo in un solo paese» diventa il cliché passe-partout dei parvenu che vogliono solo conservare i propri privilegi. Quel che le opposizioni non fanno che intravedere con angoscia, è che si profila un nuovo regime, vincitore sull’opposizione trotskista; i Bukharin, Rykov, Tomski, Riutin, quando se ne rendono conto, sono presi dallo spavento e passano anche loro alla resistenza. Troppo tardi.

La lotta della generazione rivoluzionaria contro il totalitarismo durerà dieci anni, dal 1927 al 1937. Le peripezie confuse e a volte disorientanti di quella lotta non devono oscurarne il significato. Le personalità hanno potuto affrontarsi le une contro le altre, combattersi, riconciliarsi, perfino tradirsi; hanno potuto sbandare, umiliarsi davanti alla tirannia, trattare con il carnefice, logorarsi, rivoltarsi con disperazione.. Lo stato totalitario giocava gli uni contro gli altri, tanto più efficacemente in quanto aveva presa sulle loro anime.

Il patriottismo del Partito e della rivoluzione, cementato dai sacrifici, i servizi, i risultati ottenuti, l’attaccamento a prodigiose visioni del futuro, il sentimento di pericolo comune, obliteravano il senso della realtà nei cervelli più illuminati. Resta che la resistenza della generazione rivoluzionaria, alla testa della quale si trovava la maggior parte dei vecchi bolscevichi, fu talmente tenace che nel 1936-1938, all’epoca dei processi di Mosca, quella generazione dovette essere sterminata interamente perché il nuovo regime si stabilizzasse. E’ stato il colpo di forza più sanguinoso della storia. I bolscevichi perirono a decine di migliaia, i i cittadini sovietici malati di idealismo vennero condannati a milioni.

Alcune decine di compagni di Lenin e di Trotsky accettarono di disonorarsi essi stessi, come supremo atto di devozione verso il Partito, prima di essere fucilati. Alcune migliaia di altri vennero fucilati nelle miniere. I campi di concentramento più vasti del mondo si incaricarono dell’annientamento fisico di massa dei condannati.

Così, la sanguinosa rottura fu completa, tra il bolscevismo, forma russa ardente e creatrice del socialismo, e lo stalinismo, forma altrettanto russa, cioè condizionata da tutto il passato e il presente della Russia, del totalitarismo.

Perché quest’ultimo termine abbia proprio il suo senso preciso, definiamolo: il totalitarismo, come è stato creato in URSS, nel III Reich, e debolmente abbozzato nell’Italia fascista e altrove, è un regime caratterizzato dallo sfruttamento dispotico del lavoro, dalla collettivizzazione della produzione, dal monopolio burocratico e poliziesco (sarebbe meglio dire terroristico) del potere, dal pensiero asservito, dal mito del capo-simbolo. Un regime di tale natura tende inevitabilmente all’espansione, cioè alla guerra di conquista perché è incompatibile con l’esistenza di vicini differenti e più umani; poiché soffre inevitabilmente delle proprie psicosi di inquietudine; poiché viva sulla repressione prmanente di forze esplosive all’interno…

Un autore americano, James Burnham [1905-1987, per un certo periodo si riferì al trotskismo; nel 1938 avviò una «revisione» del marxismo e considerò lo stalinismo come erede del leninismo; è successivamente passato su posizioni decisamente conservatrici. Serge si oppose con vigore all’idea di uno stalinismo erede del  leninismo, ndr], era felice di sostenere che Stalin è il vero continuatore di Lenin. Il paradosso, spinto a questo grado iperbolico, non manca di un certo fascino che stimola il pensiero pigro ed ignorante…

Va da sé che un parricida resta il continuatore biologico del padre. E’ tuttavia evidente che non si può continuare un movimento massacrandolo, un’ideologia rinnegandola, una rivoluzione di lavoratori sostituendola con il più nero sfruttamento dei lavoratori, l’opera di Trotsky facendo assassinare Trotsky e mettendo all’indice i suoi libri…

Oppure le parole continuazione, rottura, diniego, negazione, distruzione non avrebbero più alcun senso intelleggibile, cosa che può convenire ad intellettuali brillantemente oscurantisti. Non penso affatto di classificare James Burnham in questa categoria. Il paradosso che ha sviluppato, senza dubbio per amore della teoria irritante, è falso quanto pericoloso. Sotto mille forme piatte, si ritrova nella stampa e nei libri di questa epoca di preparazione alla terza guerra mondiale. I reazionari hanno un interesse evidente a confondere il totalitarismo staliniano, sterminatore dei bolscevichi, con il bolscevismo, con lo scopo di colpire la classe operaia, il socialismo, il marxismo e perfino il liberalismo…

Il caso personale di Stalin, ex vecchio bolscevico ljui stesso, come Mussolini fu un ex vecchio socialista dell’Avanti!, è del tutto secondario alla scala del problema sociologico. Che l’autoritarismo, l’intolleranza e certi errori del bolscevismo abbiano fornito al totalitarismo staliniano un terreno favorevole, chi potrà constatarlo? Una società contiene sempre, come un organismo, germi di morte. Ma c’è bisogno che le circostanze storiche facilitino loro lo scatenamento. Né l’intolleranza né l’autoritarismo dei bolscevichi (e della maggior parte dei loro avversari) permettono di mettere in discussione la loro mentalità socialista o le conquiste dei primi dieci anni della rivoluzione. Talmente reali, quelle conquiste, che due studiosi americani, soffermandosi sullo sviluppo ciclico degli organismi e delle società, constatano «che nel 1917-1918, la Russia entrò in un nuovo ciclo di crescita, tanto da apparire oggi come la più giovane delle grandi nazioni del mondo… Si tratta di Cycles, the Science of Prediction (Henry Holt, New York, 1947), scritto da Edward R. Dewey e Edwin E. Dakin. Ci piacerebbe conoscere in che misura il totalitarismo staliniano contrasta il nuovo slancio citale della Russia… David J. Dallin [menscevico, arrestato nel 1920, poi liberato, torna in Germania dove aveva trovato rifugio al tempo della repressione zarista. Dallin scrisse su Real Soviet Russia (Yale University Press, 1944 e Hollis&Carter, London, 1947) e due opere spesso ignorate: Forced Labor in Soviet Russia (con Boris Nicolaevsky), pubblicata a Londra nel 1948; e The Economics of Slave Labor, pubblicata a Chicago dalla Henry Regnery Company. Serge non poteva conoscere la seconda di queste opere. Comunque, in Real Soviet Russia, il capitolo VII, pp.126-146, è già deicato al Forced Labour; ebbe però conoscenza della prima] Ci fornisce a tale proposito un’indicazione: Nel corso della Prima guerra mondiale, le perdite della Russia costituirono il 30% di quelle degli Alleati; durante la Seconda guerra mondiale, le perdite della Russia, calcolate tra i 12 e i 16 milioni di vite umane, costiturono l’80% di quelle delle Nazioni unite. Sui campi di battaglia, le perdite delle Armate rosse furono circa quattro volte più elevate di quelle dell’invasore…

Nel momento in cui scoppia la rivoluzione russa, i membri organizzati di tutti i partiti rivoluzionari sono meno dell’1% della popolazione dell’Impero. I bolscevichi costituiscono solo una frazione di questo 1 per cento scarso. L’infima quantità di lievito fu utile e si esaurì. La rivoluzione di ottobre-novembre 1917 fu diretta da un partito di giovani. Il più anziano tra loro, Lenin, aveva 47 anni; Trotsky 38 anni; Bukharin 29 anni; Kamenev e Zinoviev, 34 anni.

Dieci-venti anni dopo, la resistenza al totalitarismo fu opera di una generazione che stava invecchiando. E quella generazione non soccombette solo sotto il peso di una giovane burocrazia poliziesca avidamente aggrappata ai privilegi del potere, ma anche sotto la passività di masse costrette al lavoro, denutrite, paralizzate dal sistema terroristico e dall’intossicazione della propaganda. E si trovò, inoltre, senza il minimo appoggio efficace all’estero. Mentre quella generazione resisteva nell’URSS, l’ascesa delle forze reazionarie nel mondo fu quasi ininterrotta. Le potenze democratiche minimizzavano o addirittura incoraggiavano Mussolini e Hitler. Lo slancio dei fronti popolari, lotta di retroguardia delle masse lavoratrici dell’Occidente, fu spezzato in Spagna, nel momento preciso in cui i carnefici di Stalin procedevano in Russia alla liquidazione del bolscevismo…

7. Che cosa resta del 1917

La rivoluzione russa ci lascia, dopo i suoi primi dieci anni esaltanti, e i venti anni neri che ne seguirono, qualche cosa da difendere? Un’immensa esperienza storica, i ricordi più fieri, esempi inapprezzabili, e sarebbe già tanto. La dottrina e le tattiche del bolscevismo, invece, necessitano di uno studio critico. Si sono prodotti così tanti cambiamenti in questo mondo caotico che nessuna concezione marxista – o comunque socialista – valida nel 1920 potrebbe essere applicata oggi senza degli aggiornamenti di fondo.

Non credo che in un sistema di produzione in cui il laboratorio acquista rispetto all’officina una preponderanza crescente, l’egemonia del proletariato possa imporsi, se non in forme morali e politiche che implicano in realtà la rinuncia all’egemonia. Non credo che la «dittatura del proletariato» possa rivivere nelle lotte future. Ci saranno senza dubbio dittature più o meno rivoluzionarie; il compito del movimento operaio sarà sempre, ne resto convinto, di preservarne un carattere democratico, non più a beneficio del solo proletariato, ma a beneficio dell’insieme dei lavoratori e anche delle nazioni. In questo senso, la rivoluzione proletaria non è più, ai miei occhi, il nostro fine: la rivoluzione che intendiamo servire può essere solo socialista, nel senso umanista della parola, e più esattamente socialisteggiante, democraticamente, libertariamente compiuta… Al di fuori della Russia, la teoria bolscevica del Partito è completamente fallita. La varietà degli interessi e delle formazioni psicologiche non ha permesso di costituire la cohorte omogenea di militanti devoti ad un’opera comune così nobilmente decantata dal povero Bukharin… La centralizzazione, la disciplina, l’ideologia governata possono ormai solo ispirarci una giusta diffidenza, quale che sia il bisogno che abbiamo di serie organizzazioni…

E che cosa resta da difendere per il popolo russo? La schiacciante ironia della storia ne fa il popolo che non ha che le proprie catene da perdere! Spero che si traduca presto in francese il libro di un’obiettività implacabile di David J. Dallin e Boris I. Nicolaevski sul lavoro forzato nella Russia sovietica [V. Serge è a conoscenza del manoscritto in russo; lopera sarà tradotta in francese – e anche in italiano – nel 1949, ndr]. Ci dice che nel 1928, all’epoca del Termidoro sovietico i campi di concentramento contenevano solo una trentina di migliaia di condannati.

Invece, è impossibile sapere il numero dei milioni di schiavi segregati oggi nei campi di Stalin. Le cifre più prudenti li valutano in dieci-dodici milioni, cioè, secondo questi autori, almeno il 16% della popolazione adulta maschile e una percentuale di donne sensibilmente minore. Sottolineavo recentemente nel mensile Masses [periodico creato nel 1933, ndr] l’importanza decisiva di questi dati. Ammettendo la cifra di un 15% di privilegiati del regime, che godono nell’URSS di una condizione media da «Europei civilizzati», cifra probabilmente ottimista in questo momento e che occorre dividere per due per ottenere la percentuale di lavoratori adulti privilegiati, Scrivevo: «Dunque: un 7% di lavoratori adulti privilegiati, un 15% di paria, un 78% di sfruttati che vivono nella povertà o nella miseria […]». Come si può qualificare questa struttura sociale? E’ difendibile?

All’estero, l’influenza di questi «universi concentrazionari» [l’opera di David Rousset L’Universo concentrazionario, pubblicata in francese nel 1946, ndr] si è rivelata capace di impedire la marcia del socialismo e la riorganizzazione dell’Europa.

La tragedia non è più specificamente russa, è universale. La terza guerra mondiale sembra doverne essere lo sbocco logico. Noi non ci rassegniamo tuttavia alle soluzioni catastrofiche, finché se ve intravedono altre. L’aggressività del regile staliniano all’estero è condizionata dalla gravità della sua situazione all’interno. La rivolta latente delle masse russe e non russe contro questo regime è stata dimostrata dal disfattismo delle popolazioni che, all’inizio dell’invasione, hanno accolto gli invasori come liberatori; provato dai disordini all’indomani della vittoria; dal movimento molto più complesso di quanto si creda dell’esercito di Vlasov che si batté prima contro i nazisti e poi per loro; dai due o trecentomila rifugiati russi in Germania; dall’affollamento dei campi di concentramento. Va considerato che i regimi totalitari costituiscono colossali fabbriche di ribelli. E in questo caso più ancora che in altri vista la sua tradizione rivoluzionaria.

La documentazione sullo stato d’animo delle masse russe cresce di giorno in giorno. Chiunque conosca la Russia, sa che, sotto il carapace di ragno del regime, si mantiene una profonda vitalità.. I nove decimi degli uomini che lavorano, costruiscono, inventano, amministrano, potrebbero, se le loro catene venissero spezzate, diventare da un mese all’altro i cittadini di una democrazia del lavoro… Potranno spezzare le loro catene in tempo perché una Russia socialista prevenga lo scatenamento della guerra?

Quel che ha fatto lo stalinismo per inculcare ai suoi oppressi l’orrore e il disgusto del socialismo è inimmaginabile: correnti di reazione possono essere previste in Russia e più ancora tra i popoli non russi, soprattutto tra i musulmani dell’Asia centrale, da lungo tempo attraversati dalle aspirazioni panislamiche. Ritengo comunque, basandomi su molte osservazioni fatte nell’URSS stessa, durante anni particolarmente crudeli per le masse, che la grande maggioranza del popolo russo si rende chiaramente conto dell’impostura del socialismo ufficiale. Non essendo possibile nessun ritorno all’ancien régime o anche al grande capitalismo, visto l’alto grado di sviluppo raggiunto dalla produzione statalizzata, nel momento in cui l’Europa intera è avviata sulla strada delle nazionalizzazioni e della pianificazione, la democrazia russa non potrebbe che risanare, ripulire, riorganizzare nell’interesse dei produttori la produzione socializzata. L’interesse tecnico della produzione, il senso della giustizia sociale, la libertà ritrovata si coniugherebbero per forza di cose per rimettere l’economia al servizio della comunità… Non tutto è perduto, finché ci resta questa speranza razionale, fortemente motivata.

Consiglio la presentazione di David Bidussa del libro “La rivoluzione russa” 

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