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SIONISMO ÜBER ALLES

German Foreign Minister Joschka Fischer places a yarmulke, or Jewish skullcap, on his head as he enters the Yad Vashem Holocaust Memorial”s Hall of Rememberances June 3, 2001 in Jerusalem. (Photo by Isaac Harari/Getty Images)

L’establishment politico tedesco ha abbandonato la convinzione che l’Olocausto gli abbia conferito una responsabilità nei confronti dell’umanità e l’ha sostituita con una responsabilità solo nei confronti di Israele. Dalla storica rivista progressista americana Dissent Magazine ho tradotto un articolo che ben racconta la deriva filo-israeliana e più in generale guerrafondaia occidentale dei Verdi tedeschi, un partito originariamente ecopacifista, parallela alla loro omologazione nell’establishment.

di Hans Kundnani*
Nei cinque mesi trascorsi dal 7 ottobre, le persone di tutto il mondo hanno assistito con orrore alla Germania che ha utilizzato la memoria dell’Olocausto per mettere a tacere le critiche alla guerra di Israele a Gaza. La risposta del governo tedesco al conflitto stesso non è stata poi così diversa da quella degli Stati Uniti: entrambi hanno aumentato la fornitura di armi a Israele e hanno sostenuto Israele contro il Sud Africa presso la Corte internazionale di giustizia. Ma la Germania è andata molto oltre gli Stati Uniti nel perseguitare manifestanti, artisti e intellettuali che esprimevano simpatia e solidarietà con il popolo palestinese. La responsabilità di un genocidio del passato viene esercitata come una sorta di autorità morale.
L’invocazione dell’Olocausto per reprimere le critiche a Israele è ben lontana dalla Erinnerungskultur, o cultura della memoria, che un tempo molti osservatori internazionali celebravano come una forma esemplare di confronto con il passato. Persino la filosofa Susan Neiman, che cinque anni fa scrisse un libro in cui celebrava la cultura della memoria tedesca come modello per gli Stati Uniti, ora pensa che sia andata “in tilt”. Neiman parla di un “maccartismo filosemita” particolarmente tedesco – anche se, poiché spesso è stato diretto anche contro gli ebrei critici nei confronti di Israele, come la scrittrice del New Yorker Masha Gessen e l’artista Candice Breitz, potrebbe essere più corretto chiamarlo “maccartismo sionista”.

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Una dichiarazione degli ebrei americani che si oppongono alla lobby ebraica

Sul sito dello storico settimanale progressista statunitense The Nation è stata pubblicata il 20 marzo questa dichiarazione collettiva. 

Una dichiarazione degli ebrei americani che si oppongono all’AIPAC

“Sosterremo i candidati che si oppongono all’AIPAC e che sono sostenitori della pace e di una nuova, giusta politica statunitense nei confronti di Israele/Palestina”.

Per decenni, l’American Israel Public Affairs Committee (o AIPAC) è stata l’ala più potente della lobby israeliana negli Stati Uniti. Fino a poco tempo fa godeva del sostegno quasi totale dei politici di entrambi i principali partiti politici.

Negli ultimi anni, tuttavia, gli atteggiamenti all’interno del Partito Democratico nei confronti di Israele, Palestina e della stessa AIPAC hanno cominciato a cambiare radicalmente, minacciando il potere di lobbying dell’AIPAC. In risposta, l’AIPAC ha iniziato a intervenire in modo aggressivo nelle elezioni primarie democratiche, spendendo ingenti somme di denaro per sconfiggere i candidati politici che potrebbero opporsi alle politiche del governo israeliano. L’AIPAC si è recentemente vantata di essere “dollaro su dollaro, il maggior contribuente ai candidati alle elezioni di medio termine del 2022 ” e ha in programma di spendere ancora più soldi nel 2024.

Gran parte del potere e della legittimità dell’AIPAC derivano dall’idea che essa rappresenta ampiamente il punto di vista degli ebrei americani. Ma gli ebrei non sono mai stati un monolite e, sulla scia dell’incessante attacco israeliano a Gaza, sempre più ebrei americani si esprimono a favore di un diverso tipo di politica.

La seguente lettera aperta ne è un chiaro esempio. È stata firmata da eminenti ebrei americani di ogni ceto sociale , i quali hanno tutti deciso di ripudiare pubblicamente sia l’abbraccio incondizionato dell’AIPAC al governo israeliano sia i suoi tentativi di schiacciare il nascente movimento all’interno del Partito Democratico per un nuovo approccio verso Israele e Palestina. 

Di seguito il testo della lettera. Continue reading Una dichiarazione degli ebrei americani che si oppongono alla lobby ebraica

SWEEZY-HUBERMAN: QUANDO ISRAELE DIVISE MONTLY REVIEW (1967)

Il conflitto arabo-israeliano (fino a Arafat non si era affermata la “questione palestinese”) ha diviso per decenni la sinistra. Lo testimonia il numero che la principale rivista marxista e terzomondista statunitense Montly Review dedicò al commento della guerra del 1967. Quel numero dell’ottobre 1967 apriva con due editoriali dei due padri fondatori e una breve intro che ho tradotto e vi propongo.

IL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO
Questo mese, come in due occasioni precedenti nella storia di MONTHLY REVIEW (novembre 1952 e ottobre 1961), pubblichiamo due editoriali firmati sullo stesso argomento. Naturalmente abbiamo cercato di raggiungere un accordo su un’unica dichiarazione e talvolta ci siamo andati vicini, ma le differenze su questioni di rilievo alla fine si sono rivelate insormontabili. Naturalmente non ci sono differenze rispetto ai principi di base.
Avevamo previsto di pubblicare in questo numero anche articoli di partigiani della parte israeliana e di quella araba nel conflitto. A causa di una malattia uno degli autori non ha potuto rispettare la scadenza. Speriamo di poter pubblicare questi articoli in un numero successivo. – I redattori Continue reading SWEEZY-HUBERMAN: QUANDO ISRAELE DIVISE MONTLY REVIEW (1967)

Tamas Krausz: Il socialismo di Lenin – Dal punto di vista del futuro (2021)

Ho tradotto un lungo articolo dello storico ungherese Tamas Krausz, autore di Reconstructing Lenin: An Intellectual Biography che finalmente uscirà in italiano il prossimo 19 gennaio meritoriamente edita dalla casa editrice Donzelli.  Ho avuto occasione di incontrare Tamas Krausz nel 2017 alla Summer university della Sinistra Europea a Budapest nell’ambito della campagna per salvare l’Archivio Lukacs (poi purtroppo chiuso dal governo di Orban). La ricostruzione del pensiero di Lenin che propone Orban lo distanzia sia dal “socialismo di stato” di Stalin sia dalla mostrificazione totalitaria che ne hanno fatto gli anticomunisti. Nel centenario della morte di Lenin vi consiglio la lettura. (M.A.)

“Se leggiamo Lenin dalla prospettiva del futuro, non sono le strade e le piazze

a dover essere occupate, ma i luoghi di lavoro”.

introduzione

C’è una grande varietà di teorie e discussioni sulle opinioni di VI Lenin sul socialismo e sulla sua praxis rivoluzionaria, che spesso porta al caos e alle confusioni teoriche e intellettuali. Il presente lavoro cerca di chiarire alcune questioni controverse.1

La teoria del socialismo di Lenin deriva direttamente dalle opinioni di Marx ed Engels, e si manifesta nella sua famosa opera, Stato e rivoluzione.2 La teoria del socialismo di Marx ed Engels era così importante per Lenin che non vi rinunciò mai, nemmeno nel periodo del comunismo di guerra, quando per un breve periodo pensò che le misure del comunismo di guerra potessero accelerare il passaggio al socialismo.

È ovvio che i rivoluzionari, compreso Lenin, dovettero cambiare idea dopo la vittoria della rivoluzione, quando si trovarono di fronte una mutata e imprevista situazione politico-storica: dopo una sanguinosa guerra civile e l’intervento militare occidentale, l’Unione Sovietica era sola e doveva navigare in circostanze “oggettive” molto sfavorevoli.

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PUNK IN DDR

La DDR di Honecker perseguitava i punk, una subcultura nata in Occidente con una forte caratterizzazione antirazzista, antisistema, classista, anarchica, anticapitalista, situazionista, antifascista, terzomondista, antimilitarista e anche proletaria.

In Italia il PCI organizzava concerti dei Clash, i movimenti assimilavano la nuova controcultura.

In Germania Ovest i punk furono anima combattiva dei movimenti sociali autonomi di occupazione delle case, antinucleari, pacifisti, alternativi.

La DDR invece li considerò minaccia da combattere.

Apprendo da Working Class History che il 12 gennaio 1989 la subcultura punk fu identificata come il problema principale in una “analisi giovanile” prodotta dal governo della Germania Est (DDR). Un segnale della scarsa comprensione delle dinamiche sociali del proprio paese se qualche mese dopo cittadine/i dell’est dilagarono verso l’altra Germania.

All’inizio degli anni ottanta le autorità “socialiste” stimarono che ci fossero circa 1.000 punk nel paese, e circa 10.000 simpatizzanti punk visibilmente identificabili, che avevano sviluppato una rete nazionale per scambiare informazioni e idee, e avevano legami con punk di sinistra e anarchici nella Germania Ovest.
I punk venivano sorvegliati dai servizi segreti della Stasi e dalla polizia politica, costretti a firmare documenti identificandosi come potenziali criminali, regolarmente arrestati e interrogati, picchiati dalla polizia, subivano il taglio della cresta mohawk. Furono imprigionati per pene più lunghe di qualsiasi gruppo di attivisti negli anni ’70 o ’80. Ad esempio, una cantante di una band punk, Jana Schlosser, fu imprigionata dalla Stasi per due anni per aver paragonato l’organizzazione alle SS naziste. Un altro punk, Juergen Gutjahr, a 17 anni subì un’aggressione: “Mi hanno legato, mi hanno messo un sacco in testa e mi hanno picchiato nella foresta”.
Molti punk furono messi nella lista nera dal lavoro, o autorizzati a lavorare solo in posti come scavare fosse o trattare rifiuti ospedalieri. Altri furono banditi dai luoghi pubblici come club giovanili, ristoranti, caffè e bar. Spesso, i punk venivano privati dei loro documenti di identificazione e forniti documenti di identità sostitutivi che limitavano la possibilità di viaggiare all’interno della DDR e impedivano di viaggiare altrove nel blocco orientale. Alcuni punk che non accettarono di essere reclutati come informatori per la Stasi venivano diffamati (cioè venivano diffuse voci che si trattava di informatori).

Il paradosso è che mentre in Occidente erano la destra e i settori religiosi più conservatori a animare le campagne contro i punk come contro i capelloni negli anni 60, in DDR erano le chiese a ospitare i concerti punk messi al bando nelle sale pubbliche.

L’ottusità autoritaria dei regimi di “socialismo di stato” non ha reso un buon servizio alla causa del socialismo.

La caduta del muro di Berlino e della DDR apri la strada alla rilegittimazione del capitalismo come migliore dei mondi possibili e dell’imperialismo Occidentale come gendarme mondiale nonché a terapie economiche shock in alcuni casi devastanti per costi umani e sociali (come in Russia).

Ma non bisogna dimenticare che il loro carattere autoritario e conservatore ne erose le basi di consenso e soprattutto la capacità di rinnovamento (da questo punto di vista i cinesi si sono dimostrati più intelligenti).

È un paradosso del Novecento che società nate da una rivoluzione, come quella bolscevica, che ebbe il sostegno entusiasta delle avanguardie artistiche e che scatenò una rivoluzione culturale nella vita quotidiana siano diventate così burocratiche e ottusamente repressive. Nella perdita della spinta propulsiva quanto contò questa chiusura disciplinare mentre il capitalismo si rinnovava proprio grazie ai movimenti che lo contestavano?

Ovviamente oggi prevale una narrazione che cancella anche gli aspetti positivi di quei regimi – tra cui il merito storico di aver sostenuto le lotte del Terzo Mondo – ma noi comuniste/i non dobbiamo dimenticare le critiche più che legittime che meritavano.

Sul punk nella DDR segnalo ottimo articolo su Carmilla, la rivista on line fondata da Valerio Evangelisti.