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Realizzammo il sogno segreto di Fantozzi. Il lungo sessantotto di Franco Calamida

Ripubblico un lungo articolo di Franco Calamida che nell’inserto del Manifesto per il ventennale del ’68 ricostruì l’esperienza del Gruppo di studio alla Philips e la nascita dei Cub. Franco di recente ha raccontato quella fondamentale esperienza nel libro Volevamo cambiare il mondo curato da Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli. Ci mancherà un compagno come Franco Calamida. L’articolo l’ho rititolato riprendendo una frase di Franco. Quello originale era più classico: 

Unire ciò che il padrone divide

I tecnici scendono in campo insieme agli operai

Franco Calamida

Nel giugno del ’68 scioperano i 1.800 tecnici e impiegati della Falk di Sesto S. Giovanni e nei successivi 8 mesi scenderanno in lotta quasi tutte le aziende con più di 1 .O00 dipendenti, a Milano ma anche a Genova; scioperano gli impiegati dei centri siderurgici di Taranto e di Bagnoli, del cantiere navale di Castellammare di Stabbia.

Si sciopera all’ltalcantieri, alla Breda, alla Asgen, alI’ErcoleMarelli, alla Fatme di Roma, all’Ansaldo … Scendono in lotta i tecnici dell’Alfa Romeo, sia a Milano che ad Arese; alla Snam Progetti di S. Donato 1.200 tecnici lavorano in un solo capannone, detto «bunker» e come forma di lotta decretano lo stato di «Assemblea permanente», all’interno del ((bunker)) stesso.

Alla Sit Siemens è attivo il primo Gruppo di studio, informale, nessuno è eletto, vi partecipa chi vuole; leader pressoché carismatico è Gaio Di Silvestro, ingegnere; anche Mario Moretti ne fa parte, più o meno con le stesse idee degli altri, i valori della democrazia diretta e del protagonismo dei lavoratori; più tardi sceglierà percorsi diversi e contrapposti.

L’avversario fu la gerarchia

Alla Borletti di Milano, dove lavora Emilio Molinari, nasce il gruppo operai-studenti. Volantino n. 1: «La lotta è iniziata alla Borletti! Questa volta a darle il via sono stati gli impiegati». La conclusione è: «No alla divisione dei lavoratori, no al potere di Borletti, sì al potere operaio».

Alla Philips, io, ingegnere, e Antonio Molinari, impiegato d’ordine alla contabilità (con uno straordinario e creativo senso del disordine), diamo vita al gruppo di studio che guiderà una lunga stagione di lotta in tutto il Centro Direzionale di Milano.

Scrivono Claudio Lombardi e Marco Calamai su Problemi del socialismo n. 39: «La tensione è elevatissima, si fanno picchetti, si formano cortei, non mancano le barricate e i blocchi stradali. Durante la lotta il livello di partecipazione diretta e di mobilitazione aumenta; impiegati e tecnici si riuniscono in assemblea per discutere e decidere collettivamente … Le assemblee si dividono in gruppi e commissioni di studio, … si affrontano problemi non solo sindacali tradizionali, ma anche più generali, in particolare il rapporto con operai e studenti».

La condizione di lavoro dei tecnici e degli impiegati si era profondamente modificata, la parcellizzazione del lavoro era spinta, le mansioni monotone e ripetitive, la dequalificazione crescente. Godevamo di alcuni privilegi rispetto agli operai, ad esempio i tre importantissimi giorni di carenza malattia, ma, per altri aspetti, di minori diritti. Un tecnico poteva venir trasferito da un giorno all’altro da Milano in Puglia, in pratica il licenziamento. Un nostro compagno di lavoro fu minacciato appunto di licenziamento se non si fosse tagliato i capelli. Il «diritto negato» ai capelli lunghi fu uno, tra i molti, fattori della ribellione. Sempre alla Philips la lotta ebbe inizio quando Ludovico Merozzo, laureato e impegnato nella formazione del Cdf, fu licenziato il 4 aprile 1969. La condizione del lavoro d’ufficio era, in buona sostanza, quella descritta da Paolo Villaggio con il suo personaggio Fantozzi. La scelta si poneva, anzi, si imponeva, tra l’accettare quel mondo di lavoro grigio, ottuso, autoritario e paternalistico «siamo una grande famiglia» o contestarlo e ribellarsi. E ci ribellammo. Realizzammo il sogno segreto di Fantozzi, collettivamente.

Dall’assemblea del «bunker» della Snam Progetti, novembre 1968: «L‘azienda che all’operaio richiede una prestazione regolare, agli impiegati richiede una adesione ideologica … quindi I’azione su di noi non è rivolta solo ad organizzare tecnicamente il lavoro, ma interferisce globalmente con la nostra persona … per imporre un determinato modello di vita strettamente finalizzato a esigenze non centrate sull’umano».

Fu la rottura radicale, profonda con quell’ideologia borghese della quale analizzavamo la crisi, nelle forme in cui si esprimeva nei rapporti di lavoro; I’avversario fu la gerarchia, la piramide gerarchica. Questa venne riconosciuta come funzionale appunto al controllo ideologico. Alla divisione in categorie e mansioni venne negata ogni oggettività; le divisioni erano la forma concreta dell’esercizio di un potere su di noi; nel lavoro e nella vita, esigenza oppressiva delle logiche d’impresa e del profitto. Contrastare le divisioni, al nostro interno, e nel rapporto con gli operai e, per altri aspetti, con gli studenti, coincideva con la costruzione di quella che allora si chiamava «la linea di massa».

L‘unità, grande spinta motrice di quella straordinaria stagione di lotte, era, quasi di per sé, pratica di lotta contro il potere, progetto politico. Il movimento dei tecnici e degli impiegati è stato, nei suoi contenuti, antiautoritario, un’occasione di riconquista di libertà.

Non solo un grande e collettivo senso di libertà, ma anche le «piccole libertà» del quotidiano: «L‘impiegata in Siemens è una macchina da scrivere? Battono qualche lettera, rispondono al telefono … e portano il caffè al capo». Anche in Philips, e suppongo altrove, ci fu la ribellione delle dattilografe nella funzione di «portatrici di caffé».

Tutto quello che era parso accettabile fino a pochi mesi prima appariva inaccettabile. Fuori il mondo cambiava, noi ci sentivamo nuovi rispetto al modello dei rapporti imposti o negati dall’organizzazione capitalistica del lavoro; c’erano le lotte degli studenti; il Vietnam all’improvviso parve vicino (le bombe con biglie invisibili ai raggi X, per impedirne l’estrazione dai corpi dei feriti, contribuivano non poco alla contestazione del ruolo del tecnico e alla denuncia della neutralità della scienza); il massacro degli studenti  in Messico prima delle Olimpiadi non era un dramma che stava altrove, lontano, ma colpiva anche noi.

Operai infedeli e impiegati fedeli

La contestazione antiautoritaria non investiva solo l’organizzazione e i modelli del rapporto di lavoro, ma il modello di vita: una scala di valori veniva rifiutata, capovolta, e cominciammo a salire i gradini di una nuova scala di valori. Non siamo mai giunti in cima. Fu certo una rivolta contro l’alienazione del lavoro, ma anche contro l’alienazione della vita. «Il padrone ci chiede adesione Ideologica». Questa fu, per un periodo,  spezzata.

E il padrone, i molti padroni, rimasero, e per un lungo periodo, disorientati, o meglio «ebbero paura di non  farcela a ricostruire ordine e disciplina». Gli operai erano «infedeli» per definizione, gli impiegati «fedeli», sempre per definizione. Cosa stava accadendo?

Pierre Carniti ha definito, nelle pagine di questi inserti, eversive le lotte dei tecnici di Milano, e in particolare quelle del Centro Direzionale. Ha ragione, tali le considerammo, tali le consideravano i padroni e tali furono.

Era la stagione dell’egualitarismo, non solo di quello salariale. L‘egualitarismo fu fondamentalmente una cultura di massa e una pratica sindacale e politica di «unità tra lotta economica e politica», come scrivevamo aIlora.

Fu conflittuale, e terreno di scontro permanente, con il Pci e la linea egemone nelle organizzazioni sindacali.

«Unire ciò che il padrone divide» era il messaggio semplice, comprensibile al quale corrispondevano inchiesta, obiettivi e lotte: la pubblicizzazione degli aumenti di merito (trasparenza, si direbbe oggi); la riduzione delle qualifiche e l’inquadramento unico per operai e impiegati; gli aumenti in cifra eguale per tutti (non il salario eguale per tutti); l’unità operai-impiegati per conquistare la riduzione dell’orario e cambiare radicalmente le condizioni e il senso stesso del lavoro; il rifiuto di punti specifici per gli impiegati (voluti dai sindacati) nelle piattaforme nazionali; il diritto alla salute, «non si monetizza e l’uomo è il metro di misura»; la denuncia dei rischi corsi dai tecnici esposti a radiazioni atomiche; l’inchiesta del Cub Borletti sulle lavoratrici e la nocività delle condizioni di lavoro. E molte altre cose ancora. Più tardi, nella seconda metà degli anni ’70, queste politiche della solidarietà e dell’eguaglianza, fondanti di una coscienza di classe, saranno liquidate con un giudizio terrificante: «appiattimento»; verrà rilanciato l’individualismo contrapposto all’egualitarismo.

Fu esattamente l’opposto dell’appiattimento; I’opposto della riduzione dell’individuo ad una dimensione totalizzante del collettivo; l’opposto della negazione della sua libertà e individualità, e diversità, in nome  di qualcosa di sovrastante. La centralita dell’uomo venne contrapposta a quella dell’impresa che negava appunto identità, individuale e collettiva: fu conquista di coscienza di sé, della propria libertà come individui che rompevano l’isolamento, imposto dai rapporti di lavoro e sociali. La libertà dell’individuo si esprimeva esattamente e necessariamente nel collettivo.

Egualitarismo, modello dirompente

Sul rapporto eguaglianza-diversità, Peppino Ortoleva ha espresso la più avanzata riflessione sull’esperienza del ’68/69.

Si è trattato del più importante fattore d’innovazione teorica e di rottura con la tradizione, vissuta nella pratica dei soggetti, di quella intensa stagione di lotte: la più ricca di implicazioni, moderna e attuale chiave di lettura. Era negata la socialità, l’individuo in quanto sociale: il riconoscerlo determinò le molte e diverse forme di ribellione. Uno dei volantini che alla Philips sollevò più discussioni era intitolato: «ci negano l’amicizia».

L‘egualitarismo fu un modello di rapporti, antagonisti a quello dominante, praticato dai soggetti di diverse realtà nel definire autonomamente le loro relazioni e obiettivi, esteso alle altre realtà e soggetti, nel riconoscimento di analoghi diritti; dunque un modello sociale, oltre i confini non solo salariali ma degli stessi rapporti di produzione.

«In verità I’egualitarismo è qualcosa di più degli aumenti eguali per tutti e rappresenta un’aspirazione permanente della classe operaia che non si può reprimere senza reprimere i suoi obiettivi di fondo» scriveva in «Quaderni di Rassegna sindacale» 1969 Sandro Antoniazzi.

L‘organizzazione informale fu la più importante forma di organizzazione. Le iniziative di lotta erano prodotte da un intreccio di rapporti, di discussioni d’ufficio e di reparto; la dattilografa che diceva «ma anche con I’inquadramento unico io continuo a fare la dattilografa» riconosceva in tutte le altre dattilografe lo stesso problema. Per il movimento dei tecnici, degli impiegati e delle dattilografe l’«operaio comune» delle fabbriche era una realtà rappresentata proprio dalle dattilografe.

Non si è mai parlato della «dattilografa massa», suona male nelle analisi sulla composizione di classe, ma erano una realtà e furono probabilmente la più tenace e motivata forza di ribellione.

Alla Philips non sempre gli scioperi venivano «ufficialmente» decisi nella sede del Cdf, per lo più erano improvvisi: venivano proclamati con un complesso intreccio di consultazioni, che si sviluppavano alla «macchina automatica del caffé»; questa «sede informale» fu garante del più alto livello di democrazia – e di protagonismo – che io abbia mai sperimentato.

Informali erano i gruppi di studio degli impiegati o le altre forme di aggregazione, i gruppi operai-studenti, i Cub delle fabbriche. Un insieme informale di collettivi, di relazioni, di riconoscimento di sé nel rapporto con gli altri, un vivere e un lottare insieme, un discutere di tutto che convergeva nella grande e straordinaria conquista di quegli anni: l’Assemblea. L‘Assemblea è la sede di tutte le decisioni, è la nuova fonte di diritto e dei diritti dei lavoratori, una nuova «autorità» che esprime il loro, autonomo punto di vista.

Tutte le altre strutture devono rispondere all’Assemblea, cioé a tutti; l’assemblea è la sede e l’espressione della democrazia diretta, con il declino di questo suo ruolo declinerà il movimento degli impiegati; da «il padrone ha deciso per te» si passa a «l’assemblea ha deciso, tutti abbiamo deciso per noi».

La compagna dattilografa si ribella

I gruppi di studio sono «laboratori sperimentali di idee», emanazione dell’Assemblea, efficientissimi nell’organizzare i picchetti, elaborare piattaforme, denunciare tutto: almeno un cartello al giorno contro la direzione.

Contestavamo quotidianamente, e nei documenti, l’organizzazione del lavoro capitalistico e la divisione dei ruoli, ma la riproducemmo al nostro interno.

Le compagne ci dissero: «Siamo passate dalla macchina da scrivere per il capo a quella per il Cdf; il lavoro è raddoppiato ed è identico». Come si usava allora passeranno alle forme di lotta: lo sciopero del picchetto, cioé non vi parteciparono. Noi maschi reggemmo con difficoltà per alcuni giorni; poi le «riconducemmo all’ordine», e sbagliammo.

L‘efficienza pose alla «democrazia realizzata del Cdf», un ordine di problemi prossimi a quelli del «socialismo realizzato». Il problema del rapporto tra efficienza, democrazia e divisione dei ruoli non è di poco conto ed è irrisolto. Gli altri aspetti della democrazia li affrontammo: la costante e conflittuale negazione del ruolo dei leaders; la partecipazione; l’informazione diffusa, immediatamente (l’informazione è potere); per la prima volta tutti allo stesso livello decisionale; le appassionate, per la verità a volte anche interminabili, discussioni sulle dinamiche di gruppo, il rapporto tra il personale e il politico. Creammo le nostre forme d’organizzazione. Quando fu proposta all’Assemblea I’elezione del Cdf, alla Philips, (scheda bianca, tutti elettori, tutti eleggibili, 72% la percentuale dei votanti), sui 21 eletti 20 erano del gruppo di studio, uno solo iscritto ad un partito. Questa fu l’eresia, la «politica dei senza tessera», come ricorda spesso Pino Ferraris citando i dati del Consiglione Fiat-Mirafiori: 160 componenti, 8 tesserati, 4 del Pci e 4 del Psiup.

L‘eresia del ’68 fu la politica viva, costruita, praticata e vissuta dai non professionisti della politica, contro i professionisti della politica, che, con qualche ragione, ci appariva fatta di nulla, o lontana o avversaria.

Di questo movimento i vertici dei sindacato, almeno all’inizio, non capirono nulla, assolutamente nulla e lo contrastarono.

«La tendenza corporativa è infatti prevalente in molte aziende: lo sciopero è visto solo come mezzo per ottenere vantaggi, il sindacato come strumento utile ma dal quale è prudente stare alla larga» (da un documento della Fiom di Milano 1969).

Corporativi!!! Questo fu il giudizio, lo stesso che, certo in un diverso contesto, è stato di recente rivolto ai Cobas dei ferrovieri e degli insegnanti: «sono la malattia, non la medicina del sindacato», sostiene Del Turco.

Il metro di misura era, ed è ancora oggi, il maggiore o minore consenso al sindacato stesso: poco consenso, molta corporazione.

Crisi del sindacato

Nascevano in realtà nuove forme di sindacalismo che avrebbero investito e trasformato il sindacato; un vero processo di rifondazione i cui valori, forme, obiettivi e contenuti (dall’egualitarismo ai Consigli) maturavano all’esterno delle organizzazioni sindacali.

A Milano, la Fim di Pierre Camiti e Bruno Manghi fu più attenta a cogliere le novità del movimento che non la Fiom di Annio Breschi, che diffidava degli impiegati per 3 motivi: 1) la «base» era corporativa e  moderata; 2) l’«avanguardia» era estremista e rivoluzionaria (in effetti molti di noi, a partire dal ’69, militarono in Avanguardia Operaia; 3) nessuno era iscritto al Pci. AI sindacato invece eravamo iscritti, ma la «tessera del Pci» era il vero metro di misura della «coscienza di classe», e, in definitiva il suo sindacato era sua proprietà della quale al massimo si poteva diventare inquilini mal tollerati.

Con questa concezione del sindacato ci scontrammo, aspramente: noi eravamo il sindacato dei lavoratori, «il sindacato siamo noi». E lo costruimmo nei fatti, tra gli impiegati. Inizialmente il sindacato ostacolò, in tutte le forme possibili, pare incredibile, ma fu così, il rapporto operai-impiegati; ma noi lo realizzammo con molta tenacia e pazienza, e nell’autunno caldo del 1969 lottammo uniti e per l’unità. Evincemmo. La contestazione operaia al «sindacato esistente», ma anche quella dei tecnici e degli impiegati, costruì il «Sindacato dei Consigli», fece avanzare un processo di unità sindacale mai concluso, questa sì fu la sconfitta. In definitiva il nostro sindacato fu la Flm. Con la Flm avanzammo, con la Flm arretrammo, ne stimolammo le posizioni quando era forte, la difendemmo quando fu aggredita.

«Da parte degli impiegati non vi sono prevenzioni quando il sindacato si pone come una delle componenti dell’Assemblea e riconosce nel gruppo di studio e nel Comitato di base il nucleo trainante e di elaborazione nella lotta contro il padrone» così scriveva nel ’69 su «Problemi del socialismo» Claudio Lombardi, sindacalista Fiom, che arrivava puntuale la mattina al picchetto con la sua chitarra, e fu dei nostri, come tutti, o quasi, i sindacalisti di base, sia della Fiom che della Fim.

Il movimento? Si sa cosa «non fu»

Infine le lotte degli impiegati, nelle realtà più consolidate, si svilupparono negli anni successivi il ’68; manifestammo con gli studenti dopo la strage di Piazza Fontana, convocammo un’assemblea esterna del Centro Direzionale in difesa della democrazia, straordinaria in quei giorni oscuri a Milano. Un ordine del giorno del Cdf Philips che respingeva l’ipotesi del suicidio di Pinelli fu pubblicato dal Giorno dopo una settimana e dall’Unità dopo 2. L‘onda fu lunga, si prolungò nella ripresa di lotte del ’7 1, fino al ’75: lottammo con gli operai, con loro subimmo la successiva rivincita, non solo padronale.

Quando, poi, alcuni anni più tardi, Giorgio Benvenuto annunciò che era necessario cedere «salario e potere», amaramente constatammo che non c’era più nulla da cedere: «già dato», anzi «già preso».

Cosa fu questo movimento?

Gli impiegati rivoluzionarono loro stessi, i contenuti delle lotte più avanzate furono anticapitalistici, ma non erano rivoluzionari, dunque non fu rivoluzionario, non c’erano del resto le condizioni; non erano neppure riformisti, per la radicalità della contestazione, con obiettivi riformatori (lavoro, casa, salute, trasporti…), non fu corporativo, questo no, sebbene spinte di razionalizzazione e di riconquista di ruolo fossero presenti, non fu certamente modernizzatore e fu moderno contro la conservazione dell’esistente. Sappiamo cosa non fu. Si può lasciare un movimento, un’esperienza viva, di lotte, di aspirazioni, di socialità e di affetti, di pratica di un diverso modo di essere e di vivere, senza una definizione definitiva? Certo, è un diritto per le migliaia e migliaia di diversi percorsi di vita e sociali e politici, che si incentrarono in quegli anni e in quelle lotte, poi si separarono. Fu il senso del collettivo, fu la solidarietà come concezione del mondo, certo … ma senza egoismo alcuno a me piace ricordarlo come movimento di solidarietà verso se stessi. Tutto finito?

No certo: oggi si possono tenere i capelli lunghi.

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