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Maurizio Acerbo e Paolo Cacciari: comunismo e beni comuni

Cop 14:Layout 1Oggi sul Manifesto è uscita la recensione che Paolo e io abbiamo scritto del saggio di Peter Linebaugh che ho proposto e co-tradotto per la rivista SU LA TESTA. Ve lo propongo con il consiglio vivissimo di acquisire la rivista. Buona lettura!

COMMONS. La potenza di un lessico dimenticato

Come un  back to the future; sono i beni comuni il futuro del comunismo. Questa – in grande sintesi – è la tesi di un breve, bellissimo saggio di Peter Linebaug pubblicato sul web journal “The Commoner” (www.thecommoner.org) che è stato tradotto sul numero in edicola del mensile “Su la testa”, la rivista di Rifondazione diretta da Lidia Menapace, con il titolo: Dai commons al comunismo. Girovagando per i sentieri storico-semantici del comunismo e dei beni comuni.

Peter Linebaugh, assieme a Markus Rediker, è autore del fondamentale I ribelli dell’Atlantico (Feltrinelli, 2000) in cui si spiegano le origini del capitalismo nelle due sponde dell’oceano, l’espropriazione delle terre di uso comune, la loro messa a profitto e la nascita delle coltivazioni industriali. Insomma l’ “accumulazione originaria”, che – come abbiamo imparato a nostre spese – non è affatto  una a tantum, ma un processo di conquista progressivo e totalizzante, di penetrazione del dominio del capitale sulla natura, fin dentro il genoma umano e la noosfera.

Gli studi storici di Linebaugh  dimostrano come il processo di espropriazione combinato con lo sfruttamento industriale (la trasformazione della terra e del lavoro in merci) abbia trovato sempre forti resistenze nelle campagne (le rivolte proletarie urbane verranno dopo).

I commons non erano un residuo anacronistico ma la consuetudine che diviene illegale e quindi criminalizzata. I levellers erano coloro che abbattevano le enclousures e i diggers  coloro che le coltivavano senza autorizzazioni. Non possedevano il concetto della proprietà privata e costituivano società alternative nelle Americhe, luoghi “senza leggi, senza libri e senza giudici”. In un manifesto dei Diggers del 1649 (due secoli prima di quello di Marx ed Engels) c’è scritto: “noi possiamo lavorare in rettitudine e porre le fondamenta per fare della terra un tesoro comune a tutti, ricchi e poveri. Che chiunque sia nato sulla terra possa essere nutrito dalla terra, la madre che l’ha partorito, secondo la ragione che governa il creato, senza racchiudere parti in possedimenti privati, ma tutti come un solo uomo lavorando insieme e nutrendosi insieme come figli di un solo padre, membri di una sola famiglia; non che uno comandi sugli altri, ma che tutti si considerino pari nel creato” (P. Linebaugh e M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico, p.93).

linebaugh1Da allora gli esperimenti di “comunità utopiche” (come pratiche concrete di forme di condivisione dei beni, come società emancipate ed autonome, ma nient’affatto pacificate con l’ordine sociale circostante) si sono succeduti intrecciandosi con gli eventi rivoluzionari del secolo dei Lumi, ma differenziandosi proprio sulla questione della “proprietà borghese”. Sono loro, i commoners (la gente comune spossessata dagli usi collettivi, esclusa dall’accesso ai mezzi di sussistenza, privata dei diritti comunitari consuetudinari) ad inventarsi per primi – secondo gli studi di Linebaugh –  la parola “communism”. Prima è Restif de La Bretonne, nel 1793 a usare la parola comunismo per indicare proprio la proprietà comune: i commons. Poi, e siamo già nel 1840, fu la volta di un altro progenitore del comunismo, seguace di Babeuf (ispiratore degli Egualitari), Goodwyn Barmby fondatore della Communist Church e della Società centrale di propaganda comunista. Da notare che il termine comunismo viene usato come se fosse un verbo:  “comunistare”, “comunisticizzare”… potremmo dire se non fosse impronunciabile! Il modo migliore per tradurre commons, infatti, dovrebbe essere “comunanze”; la dimensione  tipica di tutte le resistenze e le rivolte che contraddistinguono quei secoli compresi gli esperimenti utopistici. Un modo di dire molto vicino al neologismo coniato da Linebaugh: “commoning”, per indicare il fare pratiche sociali di condivisione; riconoscere, rivendicare e gestire collettivamente beni comuni. Scrive il nostro autore: “Possiamo definire sinteticamente qualche differenza tra commons e comunismo. Le pratiche di commoning persistono tra lavoratori e cittadini, e il comunismo è la generalizzazione di queste pratiche”. Altrimenti detto: i commons, la gestione collettiva dei beni e servizi comuni, sono forme di economie sociali alternative e solidali  che concretizzano il concetto molto potente di “economia morale” (secondo Edward P. Thompson, maestro di Linebaugh, la economia morale riguardava la difesa di regole nel commercio del grano che le comunità avevano conquistato nei secoli e che il capitalismo abbandona affamando la gente comune che si ribella), mentre il communism è la complementare teoria politica. Il comunismo viene così reinserito nella storia lunga delle classi subalterne e democrazia e comunismo camminano insieme dentro un percorso lungo secoli che non è cominciato a Mosca o Pietrogrado nel 1917.

Nel corso dell’800 i commons erano il passato e il comunismo il futuro. I due termini si sono disaccoppiati ed è stata una vera tragedia, sia per i beni comuni (ridotti a fattori e mezzi di produzione) ancor più per il comunismo. Ciò che pare vecchio e superato del comunismo – centralismo, autoritarismo, ecc. – è ciò che lo ha reso l’opposto di quello che era quando la parola infiammava commoners e proletari tra Parigi e Londra (verde, libertario, femminista, abolizionista, ecc.).

 “Ora – dice Linebaugh – nel XXI secolo la semantica dei due termini sembra essersi rovesciata, con  il termine comunismo che appartiene al passato dello stalinismo, all’industrializzazione dell’agricoltura e al militarismo, mentre i commons appartengono ad un dibattito internazionale sul futuro planetario di terra, acqua e mezzi di sussistenza per tutti”.

Il lavoro di Linebaug restituendoci l’originalità della genesi del comunismo (lontano dalle vulgate popperiane e simili) ci indica forse la strada per renderlo di nuovo una parola dicibile! Non si tratta di un’idea totalitaria di filosofi che poi si trasforma in realtà fattuale, non è la Repubblica di Platone che si traduce nei gulag, ma una moltitudine di persone comuni che reagisce all’espropriazione e alla reclusione (non dimentichiamo la schiavitù!) che insorge, fugge, resiste, si mette insieme per cercare di farcela. E’ dentro questo crogiuolo che nascono democrazia e comunismo che – va ricordato – all’epoca di Marx erano considerati quasi sinonimi. Senza la Parigi o la Londra dei commoners senza commons difficilmente Marx avrebbe partorito il Manifesto.

 Maurizio Acerbo

Paolo Cacciari

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