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Ernst Bloch, Marx e il Muro di Berlino

ernst bloch 1Il filosofo marxista ebreo tedesco Ernst Bloch si trovava in vacanza con la sua famiglia nella Repubblica Federale nei giorni della costruzione del Muro nel 1961. Decise di non fare ritorno nella DDR. Bloch aveva già  conosciuto lunghi anni d’esilio durante il nazismo. Dovette abbandonare la Germania nel 1933 per uno scritto contro il Mein Kampf di Hitler e dopo varie peregrinazioni  – Vienna, Parigi, Praga – con l’invasione nazista della Cecoslovacchia nel 1938 si trasferì negli USA dove sopravvisse facendo il lavapiatti. Bloch era un marxista convinto tanto che nel 1949 aveva rifiutato l’invito a Francoforte di T.W.Adorno perché “non intendeva servire il capitalismo”. Come Bertolt Brecht e tanti altri intellettuali marxisti nel 1949 aveva deciso di vivere e lavorare nella nascente Repubblica Democratica Tedesca per contribuire alla costruzione di una società socialista libera dai residui del nazismo e del militarismo. Evidentemente tra il 1949 e il 1961 era maturata una critica radicale e un’insofferenza verso quel regime. Il marxista Bloch dovette abbandonare la sua cattedra nell’università di Lipsia dove aveva subito attacchi sempre più frequenti per il suo marxismo antidogmatico e anche gli arresti di alcuni tra i suo studenti. Si stabilì a Tubinga nella RFT e non abbandonò mai né il marxismo né l’impegno militante (una biografia di Bloch potete leggerla qui).

In queste settimane di celebrazioni sui media della caduta del Muro di Berlino si ripropone la mistificante narrazione purtroppo egemonica costruita sopra quelle macerie negli ultimi 25 anni. Il crollo avvenuto tra il 1989 e il 1991 dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” è stato trasformato nella “fine del comunismo”, riducendo la lunga e complessa storia dei movimenti socialisti e comunisti a quelle esperienze. Come se fino al 1989 tutti i comunisti e socialisti del pianeta considerassero quelle società  il proprio punto di riferimento, come se lo stesso marxismo (che rappresenta tra l’altro soltanto uno dei filoni – seppur maggioritario – del comunismo e del socialismo) potesse essere identificato univocamente con quel modello. L’operazione di riscrittura della storia cominciata nel 1989 (e che ha raggiunto l’apice con la diffusione enorme del Libro nero del comunismo) ha avuto talmente successo che ci hanno creduto non solo la maggioranza di quelli che fino ad allora si dicevano comunisti ma anche alcuni che si ostinano a dirsi tali ma che, accettando l’identificazione, finiscono col difendere persino cose oggettivamente indifendibili.

Non può che far bene rileggere questo gigante intellettuale del Novecento, della generazione di Simmel (con cui ruppe durante la Prima Guerra mondiale non accettando la sua esaltazione del conflitto), Lukacs, Jaspers, Brecht, Benjamin (con cui sperimentò l’hascisch), Adorno, Korsch. Che il “socialismo realizzato” non funzionasse, che quell’esperienza non costituisse un modello, che anzi contrastasse con l’ispirazione originaria di Marx erano cose ben chiare a Ernst Bloch già  tanti anni prima del crollo del Muro ma – al contrario di quanto accadeva negli anni ’30 e 40 quando l’identificazione comunismo-URSS era quasi totale – questo già negli anni ’60 non implicava più l’abbandono del marxismo e/o del comunismo o dell’anticapitalismo. Lo testimonia l’intervento di Bloch Marx: camminare eretti, utopia concreta che vi propongo. In particolare in Germania la sinistra extraparlamentare emersa del ’68 a cui fa riferimento Bloch nel suo intervento era critica nei confronti del socialismo reale almeno quanto lo era del capitalismo occidentale (basti pensare a una figura come Rudi Dutschke che veniva dalla DDR!). La mistificazione sulla “fine del comunismo” è anche un’ingiustizia nei confronti del professor Ernst Bloch. Buona lettura!

febbraio 1968: Ernst Bloch - Klaus Reblin - Rudi Dutschke

Marx: camminare eretti, utopia concreta (1968)

Scritto originariamente per una conferenza per il 150 anniversario della nascita di Karl Marx (Treviri, 1968), poi pubblicato in Ernst Bloch, Uber Karl Marx, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 1968 (edizione italiana Ernst Bloc. Karl Marx, 1972 il Mulino, Bologna)

l. Quel che non si sa non fa né caldo néfreddo (1). I tiepidi hanno pensato che questo valesse anche per Marx, ed ancor oggi, spesso e volentieri, lo prendono per stupido. I nemici giurati, i nazisti, che non sapevano assolutamente nulla, sapevano menzogne a riguardo, il che è ben peggio. Ne nacque una follia, che a dire il vero fece un bel po’ di caldo su ordinazione, un caldo letteralmente micidiale.

2. Come ci si accostava e ci si accosta ora, con maggiore o minore perizia, agli ignoranti? Soprattutto dopo che il fermento socialista, proveniente dalla gioventù nuova, non abbandona più il mondo occidentale. E in modo diverso non già  in fermento, ma in atteggiamento critico, la gioventù del blocco orientale, avendo un altro Marx nella testa, si oppone agli uomini senza testa dell’apparato [Apparatschiks].

In Occidente, tuttavia, anche in coloro che non esclamano più con Adenauer: «Nessun esperimento!», le conoscenze che si hanno di Marx, meglio si direbbe le curiosità, continuano ad essere significativamente scarse, o superficiali, o rivolte in una direzione sbagliata. Ben altra appariva la situazione negli anni venti, in quel 1918 non ancora completamente dimenticato ed in un’Unione Sovietica ancora prestaliniana. La conoscenza dei concetti fondamentali del marxismo, allora, era quasi un test dell’intelligenza studentesca; e non solo ad Heidelberg o Francoforte.

Eppure, poco dopo tutto questo, Hitler vinceva non solo nella piccola borghesia, non solo nel grande capitale, al quale egli si accostava come invitato, chiamato, giacché esso lo aveva chiamato, invocato contro il fronte rosso.

Ma uno dei motivi fondamentali di ciò, accanto all’atteggiamento piagnone ed inerte dei socialdemocratici di fronte alla miseria del Reich, fu il linguaggio propagandistico quasi completamente falso dei comunisti. Questi parlarono un linguaggio arido e settario ad un tempo, abbandonando cosi del tutto il campo dell’«opposizione» contadina e piccolo-borghese al «sistema» in balia dei sussurri, dei ruggiti fascisti, dell’abuso fraudolento. Dopo di che, nonostante una simile lezione, nonostante che sia passato tanto tempo dalla sconfitta, dall’annientamento dell’arcinemico nazista, continua ad essere ancora difficile rendere il marxismo sufficientemente interessante nei normali ambienti dell’Occidente.

3. Di un possibile «nuovo inizio» dopo Hitler si è talvolta parlato, ma non lo si è avuto. Qui si parla soprattutto dell’occidente tedesco e dell’immagine che esso ha dell’Est, un’immagine non certo molto attraente. Un effetto particolarmente distensivo ebbe nel nostro paese il miracolo economico, tanto più che, dopo la sconfitta, esso era completamente inatteso, e meno che mai quadrava con quella decomposizione dell’economia di profitto prevista dal marxismo. I socialdemocratici di destra continuarono, quindi, a «gettar via zavorra», s’intende marxistica, anche se già prima, fin dal 1914, non ne portavano una tanto pesante. Dopo il 1919 il marxismo fu trasformato, rilassato, estenuato in un riformismo che ne segnava una diminuzione piuttosto che una crescita. Fu un adattamento alla società borghese, un addolcimento che giungeva all’abolizione della lotta di classe, alla liquidazione della dialettica rivoluzionaria. Tutto questo soppresse la curiosità per il marxismo in cerchie più ampie, in strati più giovanili.

Tanto più che il partito comunista, di recente fondazione, si presentava sì al seguito di Lenin, come patria dell’autentico marxismo, ma rinunciò ad esserlo più tardi, sotto Stalin; per cui, quello che allora fu il partito di Bebel, il partito di Rosa Luxemburg, figurò, anzi attrasse a sé come il migliore di quanti ve ne sono stati, anche sul piano della teoria marxista. L’interesse per Marx fu indebolito e poi soppresso in tutti i non comunisti; il disinteresse, gradito alla classe dominante, fu recato a perfetto compimento per mezzo dello stalinismo. Sul piano emozionale, fu attizzato piuttosto dal terrore [staliniano], che, per quel che poteva valere come pretesto, servì a lungo immutato. Certo quei molti che, in Occidente, lasciarono e lasciano crepare la gente negli slums, che si fecero schiavi della belva hitleriana, della sua foia e della sua «razza di dominatori», coloro che, d’altro canto, come ex-accusatori ai processi di Norimberga, preparavano e realizzavano l’inferno del Vietnam, certo tutti costoro non possono accampare alcun diritto d’aver ragione contro lo stalinismo, per lo meno non contro Stalin come tiranno sanguinario. Eppure allora il marxismo, di cui non si sapeva niente, fu screditato come non mai dal terrore di Stalin, che solo era conosciuto. E, purtroppo, non solamente fra coloro che, spregiandolo, lo ignoravano, ma anche fra quelli che finora erano neutrali, che erano divenuti adulti nel frattempo, che stavano in posizione d’attesa. Talché perfino Togliatti, anzi proprio lui, il puro, il saggio, l’inoppugnabile, poté chiedersi: «Ciò dipende dal sistema?», e quindi anche da ciò che era consentito, reso possibile, o per lo meno non impedito da qualcosa di marxiano aderente al sistema o insito in esso?

Alla propaganda del Marx autentico, contro l’antipropaganda rappresentata dallo stalinismo, non bastò, perchè non durò a lungo, il respiro di sollievo che si ebbe con la primavera polacca, e con quella ungherese nell’ottobre 1956; d’altronde quel respiro di sollievo, a differenza di quanto accade ora con l’autentica primavera cecoslovacca, non coincise con i movimenti giovanili rivoluzionari in Occidente.

La propaganda anti-Marx dello stalinismo fa il suo gioco anche in Occidente, continuando a protrarre la confusione attorno all’autentico Marx, allorchè un Capo Servizio della radio tedesco-orientale (e le sue parole dovrebbero rimanere scolpite come ammonimento), nel 1968, a proposito dell’attuale primavera praghese, grida, minaccia, ruggisce: «In uno Stato realmente socialista non esistono voci d’opposizione a cui prestar ascolto; con l’opposizione ci si intrattiene unicamente ed esclusivamente in tribunale». Dinanzi a simili sfoggi di un certo «marxismo» (l’avversario non fu capace di escogitare niente di più travisante ed obbrobrioso) è pur vero che in Occidente non si dà che un’unica reazione possibile: confonderli con i nazisti e poi, soprattutto, un sospirone di sollievo: la buona sorte ci preservi da un tale Marx!

Evidentemente il marxismo – e ce lo dimostra la citazione surriferita – non ha tanto da temere i suoi nemici quanto i suoi presunti amici. La modesta o addirittura controproducente forza di propaganda dell’Est, dunque (in larga misura anche nelle sue peculiari difficoltà), deriva, almeno in prima istanza, dall’inatteso orario di viaggio (time-table), secondo cui il marxismo non ha trionfato dapprima nell’Occidente borghese-democratico, cosi come ritenne costantemente Marx, bensì nell’Oriente zarista. L’arretratezza meramente economica della vecchia Russia (per quanto riconoscibile tutt’oggi proprio nella splendida insufficienza della copertura del fabbisogno) è, in questo caso, di assai minor rilievo del singolare dispotismo, nelle cui vesti ancor oggi la prassi affermatasi nel marxismo sovietico si presenta agli occhi dell’Occidente. Per la gioia delle Wall Street e della stampa degli Springer d’ogni paese, ma con scandalo, problematico scandalo di quel marxismo a cui fu cantata presso la culla la canzone del salto a cui si deve sempre pensare dal regno della necessità in quello della libertà.

4. Non va mai dimenticato: l’esordio rosso ebbe luogo alla russa. I dieci giorni che sconvolsero il mondo (2) presero il via sulla Neva, e non altrove. Non è che lì fosse soltanto l’anello più debole della catena, cioé quello che andava spezzato per primo; li erano soprattutto la massa e la sua testa, che alla fine esplosero. Come si è detto, Marx ha pensato per ultimo al mujik come soldato di un’armata rossa. Nonostante che il diciannovesimo secolo russo fosse pervaso da insurrezioni fin da quella dei Decabristi e non vi fosse di casa solo la bomba anarchica. Ha fatto scuola, nonostante tutto, la previsione napoleonica secondo cui nel giro di cent’anni l’Europa sarebbe stata o repubblicana o cosacca. Le cose andarono in maniera particolarmente ed ottimamente diversa con l’Europa cosacca: la sconfitta armata russa, a differenza della sconfitta armata tedesca, in cui ancora Lenin riponeva ogni speranza, recava il suo Marx nello zaino. Giustissimo; eppure: per il mutato orario di viaggio della rivoluzione, in cui la Russia era improvvisamente scattata come protagonista, proprio tale salto in avanti rappresentava, oltre tutto, un problema, con la sua repentinità. Problema che, certo, fu magistralmente disinnescato dalla soluzione che gli diede Lenin: elettrificazione più socialismo. Di fatto, fin ad epoca staliniana inoltrata, il marxismo fu di casa unicamente nell’Unione Sovietica, apparentemente cosi poco «mediata» a riguardo. Finora, però, si sono fatte conoscere in sempre maggior numero le zarificazioni del marxismo sovietico, che cominciarono ad influire sull’immagine [Image] medesima del marxismo. Si è giunti, cosi, a formulare un problema quasi fin troppo diffuso, anche se riguarda concretamente solo i sinceri marxisti. Nello stalinismo il marxismo si è trasformato fino a rendersi irriconoscibile, ovvero è, qua e là, ancora riconoscibile? Dare finalmente a questa formulazione l’indirizzo giusto, cioè soprattutto quello del cesaropapismo russo, non quello di Marx: per farlo – a voler distinguere l’essenziale da ciò che non lo è abbastanza – è di primaria importanza il problema dell’orario di viaggio, dell’avvio non nei paesi borghesi evoluti, dotati d’una democrazia per lo meno formale. A cogliere l’elemento complicante nel marxismo sovietico, elemento derivante precisamente dall’itinerario anormale, coglierlo cioé in termini geografici, non bastano la fairness nei confronti del primo tentativo socialista né la serietà, la scientificità  e la luminosità  del marxismo medesimo in sé e per sé. Ma allora risulta evidente che la mancata incidenza dell’evo moderno borghese-rivoluzionario sulla vecchia Russia, mostrò, anzi produsse [zeigte, ja zeitigte] effetti specifici anche nella nuova Russia. Le intermittenti sorgenti della ricchezza sociale zampillavano, colà, non più copiose, ma più misere che nei paesi capitalisti ben più evoluti. Senza essere stata preceduta da libertà borghesi conquistate da tempo, la prevista dittatura del proletariato doveva esser direttamente sovrapposta al terreno di quello zarismo che l’aveva immediatamente preceduta. Cosi nacquero il culto della personalità, un centralismo assolutistico senza limiti, mancanza di spazio per qualsiasi opposizione, se non sotto forma di codice penale, terrore e Stato poliziesco, un’onnipotente polizia di Stato anche dopo la piena sicurezza del potere socialista all’interno, anzi precisamente dopo di essa. In una parola, accanto a cose eccellenti che sorsero con Marx, ne sorsero altre, estremamente antidemocratiche con il socialismo, giustificate dalla storica base reazionaria esistente in Russia. Di conseguenza si dovranno distinguere con un taglio netto i maneggi di potere dai reali problemi di revisione del marxismo: i primi non appartengono ai frutti che nascono dal marxismo medesimo. Ma come mai – si potrebbe chiedere – qualcosa che in Marx è puramente teoretico non ha causato, ma neppure impedito una simile prassi? Cosi che ad esempio, la dittatura del proletariato non fu ponderata già a limine in modo tale da non poter essere trasformata, nello stalinismo, in una dittatura sul proletariato. Ed anche in seguito, cioé nella dittatura esercitata, da un apparato del tutto insensibile all’arte, su artisti e scrittori, quanto di scarso, incompiuto, od anche compiutamente neoclassico era nell’estetica marxista impedì il sorgere di un’arte sovietica. Ma tutto questo non è sufficiente, non giustifica ancora il riconnettere in modo stringente una prassi arretrata, spesso addirittura misera, ad altrettali premesse contenute nella teoria presovietica. Per quanto proprio nel rapporto teoria-prassi (centrale nella dottrina marxista) sia perfettamente legittimo misurare, riconoscere anche dai frutti. La base reazionaria, che si trovò già bella e fatta e venne lasciata com’era nel 1918, è sufficiente, in buona misura, a rendere per cosi dire comprensibile, anche se non ammissibile, il contrario di una «estinzione dello Stato»; è proprio tale estinzione che il marxismo – altrimenti così parsimonioso in fatto di prospettive sul futuro – insegna ininterrottamente. Il marxismo che aveva elencato come sue «tre fonti» l’economia politica inglese, la Rivoluzione francese (con in più l’utopia) e la filosofia classica tedesca. Per ovvii motivi dietro tutto questo non era ancora l’Oriente di allora; al contrario, Marx concludeva Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione come segue (con una profezia che di fatto non si è avverata): «Quando tutte le condizioni (interne) per la vittoria della classe operaia saranno adempiute, il giorno della resurrezione (tedesca) sarà annunziato dal canto del gallo francese» (3). Una profezia, lo ripetiamo, che di fatto non si è avverata; eppure questa frase, per quanto riguarda la presa delle bastiglie di tutto il mondo, avrà piena ragione nel futuro.

5. Come tornano in misura notevole gli stimoli che hanno fatto e fanno rosso il mondo! Come si sono dimostrate durevoli le vedute realmente marxiste, e come dureranno, finché non verranno osservate! Ecco che l’odierna gioventù rivoluzionaria torna ad apprendere davvero vivacemente; fin troppo vivacemente per molti che non sono più abituati alla contraddizione. La gioventù apprende e fa strepito talvolta anche in modo anarchico, certo, inclinando a Bakunin piuttosto che a Marx. Bakunin si scagliava in primo luogo contro lo Stato oppressivo, e non in primo luogo contro l’economia di sfruttamento, quasi che lo sfruttamento fosse derivato essenzialmente dall’oppressione e solo lo Stato fosse il principio d’ogni male. Eppure questo spostamento nell’indirizzo della lotta rivoluzionaria non significa affatto un qualche riaccendersi della polemica contro il Marx originario; dovrebbe significare piuttosto una polemica contro lo stalinismo che si appella a Marx. Ed è significativo, ai fini di ciò che è permanente nei punti fondamentali del marxismo, che nell’antistalinismo viene citato non Bakunin, ma precisamente Trozkij, il marxista. Non meno lo è il fatto che anche ora, nelle parole d’ordine degli intellettuali e degli studenti contro l’establishment, quelle che risuonano da Berkeley fino a Varsavia, a Mosca, di solito non appaiono affatto dei bakunismi di sapore antimarxistico, a meno che non si tratti, qui e là, di strumenti di rottura o di difesa contro il dispotismo (è già un pezzo che s’istituiscono «consigli», «soviet» di origine anarchica). Inoltre, il marxismo originario, quello che va costantemente e ulteriormente sviluppato, se non è originario e non viene sviluppato ulteriormente, non ha che «le caratteristiche superate» augurategli cosi spesso dalla gente più arretrata ed anche, purtroppo, finora, dei socialdemocratici.

Effetti paralizzanti e disastrosi ha su coloro che altrove son rimasti indietro in modo diverso, cioè su coloro che si sono irrigiditi schematicamente, il catechismo marxista, che quelli si sono compilato quasi che Marx fosse il santo patrono del suo opposto: della sterilità. Ma quel che resta valido in tutti i principi capitali del marxismo è tutt’altro che sterile: è analisi, è direttiva, in base a cui da Marx in poi l’essenza, l’essenziale di quanto ha a che fare col capitalismo non si è mutato e tutte le volte cade sempre in piedi. Ovviamente, dai tempi di Marx, alcuni fenomeni di questo essenziale hanno subito un mutamento corrispondente ad alcune nuove direttive del capitalismo stesso. Cosi, per es., la teoria della pauperizzazione crescente del proletariato, pertinente ai tempi di Marx ed Engels, oggi non vale più nei paesi ad alto livello capitalistico, cioé non vale piuù finché una crisi non colpisce i prestatori d’opera con una durezza incomparabilmente maggiore di quanto non faccia con i grandi datori di lavoro, e non si ha un nuovo decollo di quella modernissima epopea che si chiama «compartecipazione sociale» [Sozialpartnerschaft]. I negri del Nordamerica, gli indios, e non solo gli indios, dell’America Latina, le masse affamate dell’India non si sono accorti gran che della fine che avrebbe avuto la teoria della pauperizzazione crescente; l’invecchiamento di quest’ultima, esasperata in termini spettacolari, è dunque limitato ai paesi «bianchi» del boom economico, ed anche in essi è solo appariscente. Per contro, nel marxismo originario, nella sua analisi perfettamente detettivo-rivelativa, nella sua dialettica delle contraddizioni che portano al rovesciamento socialista, restano pertinenti al massimo quelle cognizioni essenziali che si riferiscono, en gros ed en detail, alle strutture di classe.

Le contraddizioni del capitalismo, ossia della più sviluppata di queste strutture, fanno si che ci si accorga nel modo più pungente della completa estraneazione, autoestraneazione. Così, ad esempio, nel giudicare il lavoro come unico creatore di valore, nello scoprire la ripartizione del plusvalore prodotto, che affluisce prevalentemente all’imprenditore, lasciando al lavoratore solo quel tanto che gli occorre per riprodurre la sua forza-lavoro. Cosi, ad esempio, nel riconoscere che nella società delle merci il proletario possiede e ha da vendere come unica merce la sua forzalavoro, ma in modo tale che quella società stessa rappresenta la mercificazione di tutti gli uomini. Una reificazione, ivi compresa un’autoestraneazione, finanche dei capitalisti (con la differenza che questi vi si possono sentire a proprio agio), e perfino un’estraneazione delle cose entrate nella circolazione delle merci, e l’illusione di un destino indipendente dagli uomini, in verità imperscrutabile. In verità  vuol dire qui che nel prodotto estraniato e nella sua circolazione che avviene in apparenza automaticamente, dietro le nostre spalle e al di sopra delle nostre teste, è stato dimenticato l’uomo che produce e, insieme a lui, sono stati dimenticati i rapporti di produzione che, di volta in volta, sono i soli a costituire lo «spirito», operante più o meno numinosamente, d’una società. Così, ad esempio, il ritenere che la struttura economico-tecnica, che appare come materiale, condiziona non solo la sovrastruttura politico-sociale (come dice Marx, «la macina a mano condiziona la società feudale, il mulino a vapore quella capitalistica») ma anche i contenuti di ogni sovrastruttura culturale. In questa materia, a differenza del volgare semplicismo di certi epigoni, Marx ha dimenticato raramente gli anelli intermedi fra «economia» e «ideologia», e, anche dimenticandoli, ha adoperato un contravveleno per i puri idealisti e i feticisti dello spirito, facendo in modo, così, che non fossero più trascurati o addirittura soppressi, nello studio dell’antichità o, poniamo, dell’età gotica o della barocca, i condizionamenti economico-sociali che le avevano rese possibili. Da allora anche in campo borghese si ebbe una cosiddetta «sociologia della cultura»; ma era stato comunque inferto un colpo alla superstizione secondo cui le epoche culturali e le loro opere si sarebbero susseguite l’una dietro l’altra come per una sorta d’incesto o anche di partenogenesi. Cosi, per esempio, il più efficace giudizio sulla storia nel suo insieme, per la prima volta propriamente dialettico, discende dalla priorità della struttura: il giudizio secondo cui lo spirito dominante di un’epoca non è solo lo spirito della classe dominante in essa, ma è dato dal movimento della storia e insieme dalla storia del movimento delle classi, o dalla dialettica delle classi, cioè della contraddizione che in ogni classe dominante esercita la classe e la società insorgente e maturantesi, di cui quella ancora sussistente è gravida; ciò, fintanto e fino a quando i dannati di questa terra non potranno finalmente abolire ogni società di classe, vale a dire quella che finora è la pura e semplice «preistoria» umana, con il suo costante scandalo che si chiama «padrone e servo». Tutto questo, all’inizio come alla fine, si realizza prendendo violentemente partito per i travagliati e gli oppressi: «L’abolizione del proletariato è la realizzazione della filosofia» (4).

Ecco, quindi, l’ultima, la più durevole veduta in Marx: la verità non esiste per se stessa, bensì come emancipazione, come interpretazione del mondo, il cui scopo e il cui senso sono individuati nella trasformazione; un’interpretazione che è teoricamente chiave, praticamente leva. A chi trovasse antiquata questa sorta d’istruzione che la teoria filosofica dà  nei confronti della prassi umanistica (e di nient’altro), a questo amico dell’attuale, potrebbe esser difficile recar aiuto. Ad ogni modo il marxismo originario contiene ancora, nel suo passato, tanto futuro non compensato, come se ciò che il marxismo intende come il miglioramento del mondo fosse pur sempre in anticipo rispetto a ogni seducente realizzazione che avremo compiuto del nostro mondo. In coerenza con le linee fondamentali che il marxismo ha tracciato nelle tendenze mature della storia, ben lungi da ogni astratto utopizzare: non, certo (ed è lo stesso Marx a dirlo) come esclusione d’ogni utopia, ma come inizio di qualcosa che finalmente non è invecchiata né invecchiabile: la concreta utopia.

6. Detto questo, è ovvio che non va dimenticato il camminare eretti, quel camminare che non ancora si ha, non si ha ancora in senso giusto. Non lo si ha, cioé nel senso tradizionale, elevato, che un tempo era ritenuto conforme al diritto naturale. Nelle grandi utopie sociali, soprattutto in quelle di Fourier, Owen, Saint-Simon, Engels addita i precursori del socialismo. Minore considerazione trova invece ai suoi occhi il giusnaturalismo classico dei secoli XVII e XVIII, inteso più alla dignità  che alla felicità umana. Nonostante che abbia fornito un essenziale impulso ideologico alle rivoluzioni inglese, americana, francese; nonostante che probabilmente le grandi parole di libertà, eguaglianza, fraternità siano servite a ficcar lo sguardo nelle «ingiustizie» piuttosto che a vagheggiare isole di felicità e analoghe visioni ideali della società. Proprio per questo la dignità dell’individuo (quella per cui, secondo Kant, l’umanità sarebbe da onorare) non fu la parola d’ordine marxiana della emancipazione, per lo meno non fu la principale; i giusnaturalisti furono annoverati raramente fra i precursori del socialismo. Ad onta di passi significativi di Marx ed Engels sul colorito individuale, la liberazione socialista di tutti gli individui, la fine del governo sulle persone e, insieme, l’estinzione dello Stato. Un affievolirsi e, talvolta, un venir meno dell’illuminazione, esiste tuttavia ed ha indubbiamente rafforzato nello stalinismo l’effetto centralistico, che derivava dalla deficienza russa delle libertà conquistate dalla borghesia. Nessun dubbio, a questo proposito, che in Marx l’accento più debole posto sulle libertà personali corrispondeva al rifiuto d’ogni ideologia  imprenditoriale, del suo laissez faire, laissez aller di tutti gli interessi economico-individuali, che il diritto naturale classico aveva non solo maieutizzati, ma indubbiamente compartoriti. Allora può darsi perfino, post festum, che il tramonto borghese del diritto naturale classico nella giurisprudenza del secolo XIX, romantico-storica prima, giuridico-positivistica poi, abbia favorito la liquidazione marxista del diritto naturale e le istanze che l’accompagnavano, altamente umanistiche e non limitate all’economia privata. In ogni caso la formula della Luxemburg: «non c’è socialismo senza democrazia», e quindi senza diritto di autodeterminazione degli individui socialisti, contiene un’eredità degli altri precursori del socialismo, un’eredità a cui abitualmente non si è dìto sufficientemente. Sarà l’entrata in possesso di questa eredità, cioè di una eredità  che consiste in un’emancipazione non più borghese, ma autenticata come socialista, a decidere in futuro sulla fisionomia libertaria del comunismo. L’ortopedia del camminare eretti è uno dei suoi compiti più urgenti; un socialismo umano lo contiene senz’altro come supremo diritto dell’uomo.

7. Marx, infine, è consapevolmente parco e sicuro nell’usare colori che potrebbero predipingere in qualche modo il futuro. Si separa cosi a buon diritto dal modo di procedere dei suoi utopici precursori, che troppo spesso spacciavano meri desideri per futuro, inventando cerebralmente e componendo nelle loro cosiddette favole politiche [Staatsmarchen] quel che al di fuori, nel corso della vita sociale, aveva un aggancio scarso o nullo. A dire il vero, tale modo di procedere, pur essendo ancora astratto, raramente rivesti un carattere solo privato di libera invenzione fantastica; altrimenti le utopie, che si susseguono l’una dietro l’altra, non sarebbero state, come furono per lo più, legate, e perfino conformi al loro tempo. Tommaso Moro fu inglese e liberale. Campanella, con la sua Città del sole, corrispose ai compiti che si poneva al suo tempo l’assolutismo franco-ispano. A sua volta Saint-Simon, duecento anni più tardi, ebbe come parola magica l’industrie. Eppure anche qui il non-mediato, non mediato nel dato, che oltre tutto era solo giustapposto alle tendenze del dato, a quel grandioso sorpasso, a quella grandiosa progettazione che costituiva l’utopia, conferì quel sapore di sogno (dai filistei chiamato anche esaltazione) che fino a poco tempo fa fece apparire futile quanto vi è di utopico. Invece di tutto questo, Marx ha compiuto esattissime analisi economiche, anzitutto della merce e della sua circolazione, in un’opera che a ragione s’intitola Il capitale, e non, poniamo, «Appello al socialismo» (che proprio in essa viene esposto e giustificato in tutti i particolari). Con la concezione economica della storia, col materialismo storico-dialettico, una corrente fredda perfettamente adeguata, una demistificazione, detettiva in forza dell’economia, una mediazione della contraddizione soggettiva con quella oggettivo-reale, si presentò allora agli occhi dei travagliati e degli oppressi, venendo in loro soccorso; col rifiuto del termine «utopia», ovviamente e nel miglior modo possibile si aveva una delimitazione della prospettiva al prossimo passo da compiere in vista dello scopo. Lo scopo medesimo restava perfettamente presente alla memoria; ad ogni sciopero per fini salariali doveva essere e restare immanente lo scopo finale: «il rovesciamento del regno della necessità nel regno della libertà». E lo scopo, poiché non è ancora visibile, non è ancora compiutamente manifesto, a ragione resta aperto quanto ai contenuti: un’iconoclastia che nasce dalla scientificità. Tuttavia, come si è notato, vi è anche un progresso alquanto eccessivo dall’utopia alla scienza; quasi che tutto ciò che è utopico non fosse altro che astratto, addirittura illusivo, e quasi che la scienza si attenesse soltanto ai fatti; dal che è ben lontano quel pensatore del fieri, quel pensatore del progresso che fu Marx. Erroneamente, dunque, un certo marxismo improntato al mero empirismo finisce col cancellare, spesso e volentieri, due realtà che sarebbero inzavorrate d’utopia, e che di fatto quest’ultima rende vive e dinamiche: in primo luogo l’Ideale, in secondo l’Utopica finale compresa nel precedente, e le cancella sempre come apparentemente non concrete. E invece sono realtà che appartengono ambedue al marxismo oggi, cosi come vi apparterranno domani, giacché in esso non è sola economia politica, ma anche la tendenza, la latenza di una realtà ultima che influisce concretamente su quella attuale.

8. E senz’altro importante, quindi, che il desto sogni in anticipo; il nuovo lo esige. Vi è a riguardo un ammonimento di Lenin, che purtroppo potrà sorprendere molti, ma non certo quella gioventù senza di cui non sussiste un movimento socialista. Lenin, che non è certo considerato un utopista dai suoi epigoni, scrive: « di che dovremmo sognare? … Dirò di più: mi chiedo se un marxista abbia mai il diritto di sognare, qualora non dimentichi che, secondo Marx, l’umanità si pone sempre i soli compiti che può assolvere … Se l’uomo fosse privo d’ogni attitudine … a sognare, se non fosse capace, di quando in quando, di precorrimenti, che lo mettano in grado di scorgere, come un quadro unitario e compiuto nella sua fantasia, l’opera che proprio allora comincia a prender forma sotto le sue mani, non potrei assolutamente concepire quale movente possa costringere l’uomo a intraprendere e condurre a termine lavori ampi e faticosi nella sfera dell’arte, della scienza e della vita pratica» (5). Fin qui Lenin ed alcuni dei suoi mallevadori, dietro dei quali egli si nasconde ironicamente; alate immagini ideali, in quanto non appartengono esclusivamente al fattore soggettivo, si fanno posto. Saltano oltre la realtà come tendenza ideale soggettiva, che precede con perfetta legittimità una tendenza storica oggettiva, la quale niente affatto necessariamente viene incontro ai sogni precorritori.

Contro ogni moralismo puramente soggettivo, o addirittura retorico, Marx ribadisce infatti che la classe operaia rivoluzionaria non ha alcun ideale da realizzare; ha esclusivamente da porre in libertà le tendenze sociali esistenti, di cui è attualmente ripiena la società. Ma non si muore e nemmeno ci si entusiasma per un bilancio di produzione perfettamente organizzato e niente altro. Non è stato nemmeno il contrario, per lo meno non solo la prosperità, che nell’Est si evolve cosi parsimoniosamente, a portare alternativamente proletariato e intellettuali alla mancanza d’entusiasmo, bensì quella maniera meschina e controproducente di realizzare gli ideali socialisti, poniamo quell’«umanesimo reale» a favore del quale Marx si è schierato expressis verbis. Quanto all’essenziale in tutto questo: nel suo insieme l’umanesimo reale, per quanto riguarda tanto il suo elemento tendenziale-mediato quanto il latente-ancora-ideale, corrisponde a quel paradosso che è nato ed è diventato possibile per tutti gli empiristi solo negli anni venti, il paradosso che si chiama utopia concreta. Un’apparente contradictio in adiecto, che venne rilevata subito e fin troppo facilmente, un fondare utopico sull’aperta concretezza della materia della storia, anzi sulla stessa materia della natura. Concretezza intesa come il possibile oggettivo-reale, quello che circonda la realtà esistente con una latenza sterminata e proprio per questo aggiunge alla potenza della speranza umana la connessione con la potenzialità che è nel mondo. L’utopia concreta, quindi, è implicata nel materialismo dialettico, affinché quest’ultimo, contravvenendo ai patti, non riblocchi le sue stesse prospettive, cioè il novum d’un materialismo dialettico-utopico. Un esteso campo, abitato dalla materia stessa come da un «essere-in-possibilità», come da una potenzialità che genera, lungo il suo cammino, nuovi modi di esistere, fino alla «naturalizzazione dell’uomo», all’«umanizzazione della natura», come dice proprio Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, contro ogni esclusione di mete a lunga scadenza. Insomma: la disumanità del nostro mondo avrebbe, ha, certo, tutto da temere quel giorno che finalmente nascesse e si affermasse davvero il marxismo; cesserebbero finalmente d’esistere padrone e servo. Ciò che è giusto, tuttavia, una volta che fosse liberato tanto dalle  tisane quanto dal catechismo, respirerebbe finalmente in una libertà dal profitto, in una etica senza padrone né servo, in un’arte senza fedi illusive, senza superstizioni. Nel duecentesimo genetliaco si avrebbe finalmente una festività concreta, non solo una che coincida con disordini razziali, carestia in India, ritorni di fiamma fascisti.

Nel calendario filosofico, dichiara il laureando [Doktorand] Marx, Prometeo è il santo principale; quel che s’intende con il suo nome non sarà inchiodato di nuovo alla roccia, alla croce, al contrario; quod erit demonstrandum; è quanto si dovrà  dimostrare.

1 Proverbio tedesco corrispondente al nostro « occhio non vede, cuore non sente [duole] » [N. d. T.].

2 Allusione al classico libro di John Reed sulla Rivoluzione d’ottobre: Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Roma, Editori Riuniti, 1961 [N. d. T.].

3 Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in MarxEngels,

Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71 [N. d. T.].

4 Cfr. ibidem, p. 71 [N. d. T.].

5 Cfr. V. I. Lenin, Che fare, in Opere, 45 voll., Roma, Editori Riuniti, 1954-1970, vol. V, pp. 470-71 [N.d.T.].

se mi inviate una mail all’indirizzo maurizioacerbo@gmail.com vi invio il file dell’intero libro di Bloch su Karl Marx

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