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Alvaro Garcia Linera: Cinque suggerimenti dalla Bolivia per la Sinistra Europea

evo-morales-und-sein-stellvertreter-alvaro-garcia-linera-feiern-den-wahlsieg-in-la-pazEvo Morales ha stravinto per la terza volta le elezioni in Bolivia. Un notizia positiva, direi entusiasmante che mi spinge a consigliare a tanti compagni depressi di  uscire dal dibattito condominiale della sinistra italiana e prestare maggiore attenzione non solo alle esperienze della Sinistra Europea ma anche a quella del socialismo del XXI secolo latinamericano.

Segnalo l’intervento di Alvaro Garcia Linera, Vice Presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia, al IV Congresso del Partito della Sinistra Europea tenutosi a Madrid il 13-15 dicembre 2013 (per capirci il congresso che lanciò definitivamente la candidatura di Alexis Tsipras). Visto che i giornali italiani ne parlano pochissimo (ahimè Manifesto compreso) il Partito della Sinistra Europea è la formazione nata nel 2004 all’interno della quale si ritrovano Syriza, Rifondazione, Linke tedesca, Izquierda Unida spagnola, Front de gauche francese e complessivamente più di 30 partiti e organizzazioni del continente. Alvaro Garcia Linera (il tipo accanto a Morales nella foto) è non solo il vice di Evo ma un intellettuale militante e dirigente politico davvero interessante (nella raccolta “L’idea di comunismo” Bruno Bosteels dedica alcune pagine alle elaborazioni di questo marxista boliviano). Visto lo stato della sinistra radicale e dei movimenti italiani mi pare il caso di non lasciarsi sfuggire i suggerimenti che ci giungono dalla Bolivia. 


Permettetemi di congratularmi per  questo incontro della Sinistra Europea e a nome  del nostro Presidente Evo,  del mio paese del nostro popolo, ringraziarvi per l’invito che ci avete fatto per condividere un insieme di idee, riflessioni in questo importante congresso della Sinistra Europea

Permettetemi di essere diretto,  franco….. ma anche propositivo.

Come vediamo l’Europa noi da fuori?

Vediamo un’Europa che langue, vediamo un’Europa abbattuta, vediamo un’Europa egocentrica e soddisfatta di sé. Vediamo un’Europa in certo modo apatica e stanca. So che sono parole molto brutte e molto dure però è così che vediamo l’Europa.

E’ molto lontana dietro di noi l’Europa dei lumi, l’Europa delle rivolte, l’Europa delle rivoluzioni. È lontana nel passato, molto lontana, l’Europa dei grandi universalismi che mossero il mondo, che arricchirono il mondo, che spinsero i popoli di tante parti del mondo ad acquistare una speranza e a mobilitarsi intorno a questa speranza.

Sono rimaste nel passato le grandi sfide intellettuali. Questa interpretazione che sostenevano e sostengono gli intellettuali postmoderni per cui sono finite le grandi narrazioni, alla luce dei recenti avvenimenti, sembra significare che l’unica cosa che conta sono  solo i grandi affari delle multinazionali e degli interessi del sistema finanziario.

Non è il popolo europeo che ha perso la virtù o la speranza, perché l’Europa a cui mi riferisco, quella stanca, l’Europa esausta, l’Europa egocentrica non è l’ Europa dei popoli. Questa è messa a tacere, imprigionata, asfissiata e l’unica Europa che vediamo nel mondo di oggi è l’Europa dei grandi trust, l’Europa neoliberista, l’Europa dei grandi affari finanziari, l’Europa dei mercati e non l’Europa del lavoro.

Priva di grandi dilemmi, di orizzonti e di speranza, si sente solo – parafrasando Montesquieu – il deplorevole rumore delle piccole ambizioni e dei grandi appetiti.

Delle democrazie senza speranza e senza fede sono democrazie sconfitte, delle democrazie senza speranza e senza fede sono democrazie fossilizzate. In senso stretto non sono democrazie. Non esiste democrazia valida che sia solo un attaccamento noioso a istituzioni fossili con cui si compiono rituali ogni tre, quattro o cinque anni, per eleggere coloro che decideranno (malamente) i nostri destini.

Tutti sappiamo, e nella sinistra più o meno condividiamo, una opinione comune su come siamo arrivati ​​a una simile situazione.  Gli studiosi, gli accademici, i dibattiti politici offrono un insieme di linee interpretative sulla situazione in cui ci troviamo e come ci siamo arrivati​​.

Un primo criterio condiviso su come siamo arrivati ​​a questa situazione è che abbiamo capito che il capitalismo ha acquisito – senza alcun dubbio – una dimensione geopolitica planetaria assoluta. Esso copre il mondo intero e il mondo intero è diventato una grande fabbrica globale. Una radio, una televisione, un telefono non hanno più un’ origine di fabbricazione poichè il mondo intero è diventato questa origine della fabbricazione. Un chip è realizzato in Messico, il disegno proviene dalla Germania, la materia prima è latino-americana, i lavoratori sono asiatici, la confezione è americana e la vendita è planetaria. Questa è, senza dubbio, una caratteristica del capitalismo moderno ed è a partire da questa realtà che dobbiamo agire.

Una seconda caratteristica degli ultimi 20 anni è una sorta di ritorno ad una sorta di accumulazione primitiva perpetua. Gli scritti di Karl Marx che raffiguravano l’ascesa del capitalismo nei secoli XVI e XVII si ripresentano oggi come testi del XXI secolo. Abbiamo una permanente accumulazione originaria che riproduce meccanismi di schiavitù, meccanismi di subordinazione, di  frammentazione che sono stati ritratti da Marx in modo straordinario. Solo che il capitalismo moderno riattualizza l’ accumulazione originaria. La riattualizza, la espande, la irradia ad altri territori per estrarre più risorse e più denaro. Però insieme a questa accumulazione primitiva perpetua – che definisce le nuove caratteristiche delle classi sociali contemporanee, sia nel nostro paese, che nel mondo, perché riorganizza la divisione del lavoro locale, territorialmente, e la divisione del lavoro planetario – insieme a questa abbiamo una sorta di neo-accumulazione per espropriazione.

Abbiamo un capitalismo predatorio che accumula in molti casi producendo nelle aree strategiche – conoscenza,  telecomunicazioni, biotecnologie, industria automobilistica – ma in molti dei nostri paesi accumula per espropriazione, accumula occupando gli spazi comuni: biodiversità, acqua, conoscenze ancestrali, foreste, risorse naturali.

Si tratta di una accumulazione per espropriazione – non attraverso la creazione di ricchezza – ma attraverso l’espropriazione di ricchezza comune che diventa ricchezza privata.

Questa è la logica neoliberista. Se critichiamo tanto il neoliberismo è per sua logica predatoria e parassitaria. Più che un creatore di ricchezza o di sviluppo delle forze produttive, il neoliberismo è un espropriatore di forze produttive capitaliste  e non capitaliste, collettive, locali, delle società.

Ma la terza caratteristica dell’economia moderna non è solo la continua  accumulazione     primitiva, l’accumulazione per espropriazione, ma anche per subordinazione – Marx direbbe sussunzione reale della conoscenza e della scienza all’accumulazione capitalistica. Quello che alcuni sociologi chiamano la “società della conoscenza”. Senza dubbio queste sono le aree più potenti e di maggiore allargamento delle capacità produttive della società moderna.

Ma in ogni caso la quarta caratteristica, sempre più conflittuale e rischiosa, è il processo di sussunzione reale del sistema integrale della vita sul pianeta, vale a dire, dei processi metabolici esistenti tra uomo e natura.

Queste quattro caratteristiche del capitalismo moderno ridefiniscono la geopolitica del capitale su scala planetaria, ridefiniscono la composizione di classe  nella società, ridefiniscono la composizione della classe  e delle classi sociali nel pianeta.

Non stiamo parlando solo dell’esternalizzazione verso le estremità del corpo capitalista della classe operaia tradizionale, che abbiamo visto emergere nel XIX e all’inizio del XX secolo e che ora si sposta verso le zone periferiche: Brasile, Messico, Cina, India, Filippine,  ma, anche, dell’emergere nelle società più sviluppate di un nuovo tipo di proletariato, un nuovo tipo di classe lavoratrice: la classe lavoratrice del colletto bianco. Docenti, ricercatori, scienziati, analisti che non si percepiscono come classe lavoratrice, ma come piccoli imprenditori sicuramente, ma che nel fondo costituiscono una nuova composizione sociale della classe lavoratrice degli inizi del XXI secolo.

Ma allo stesso tempo abbiamo anche una creazione nel mondo di quello che potremmo chiamare un proletariato diffuso. Società e nazioni non capitaliste che vengono formalmente sussunte alla accumulazione capitalista: America Latina, Africa, Asia. Parliamo di società e di nazioni non strettamente capitaliste, ma che appaiono nell’insieme sussunte e articolate come forme di proletarizzazione diffusa. Non solo per le loro forme economiche, ma anche per le loro caratteristiche di unificazione frammentata o di difficile unificazione, per la loro dispersione territoriale.

Abbiamo così non solo una nuova modalità di espansione dell’accumulazione capitalistica, ma anche una ristrutturazione delle classi, del proletariato e delle classi non proletarie nel mondo. Il mondo di oggi è più conflittuale. Il mondo oggi è più proletarizzato; solo che le forme di proletarizzazione sono diverse da quelle che abbiamo conosciuto nel secolo XIX e agli inizi del ventesimo secolo. E le forme di organizzazione di questi proletari diffusi, di questi proletari dal colletto bianco, non assumono necessariamente la forma di sindacato. La forma sindacato in qualche modo ha perso la sua centralità in alcuni paesi e sono sorte altre forme di unificazione del popolare, del lavoro e dell’operaio.

Che fare? – la vecchia domanda di Lenin. Che facciamo? Condividiamo le diagnosi di ciò che è sbagliato, di cosa sta cambiando nel mondo e di fronte a questi cambiamenti non sappiamo rispondere – o meglio – le risposte che avevamo prima sono insufficienti;  se non fosse così, la destra non starebbe governando qui in Europa.

Manca qualcosa nelle nostre risposte e nelle nostre proposte. Permettetemi di dare, in maniera modesta, cinque suggerimenti per questa costruzione collettiva che si propone la sinistra europea.

La sinistra europea non può accontentarsi di fare solo diagnosi e denunce. La diagnosi e la denuncia servono per generare indignazione morale, ed è importante l’espansione della indignazione morale, ma essa non genera da sola la volontà di potere. La denuncia non è una volontà di potere. Può essere solo l’anticamera di una volontà di potere.

La sinistra europea e la sinistra mondiale di fronte a questo turbine distruttivo, predatore della natura e degli esseri umani, che viene avanti spinto dal capitalismo contemporaneo, deve venire fuori con proposte, con iniziative.

La sinistra europea e la sinistra di tutte le parti del mondo abbiamo bisogno di costruire un nuovo senso comune. In fondo, la lotta politica è una lotta per il senso comune, per formare l’insieme di giudizi e pre-giudizi attraverso cui, in maniera semplice,  la gente – il giovane studente, il professionista, la venditrice, il lavoratore, l’operaio – ordina il mondo. Questo è il senso comune. E‘ la concezione basilare del mondo con la quale diamo un senso alla nostra vita di tutti i giorni. Il modo in cui valutiamo il giusto e l’ingiusto, il desiderabile e il possibile, l’impossibile e il probabile. La sinistra mondiale deve lottare per un nuovo senso comune, progressista, rivoluzionario, universalista. Ma, è necessario un nuovo senso comune.

In secondo luogo, abbiamo bisogno di recuperare –come il primo oratore ha detto brillantemente – il concetto di democrazia. La sinistra ha sempre sostenuto la bandiera della democrazia. E’ la nostra bandiera. E’ la bandiera della giustizia, dell’uguaglianza, della partecipazione. Ma per questo dobbiamo sbarazzarci del concetto di democrazia come un fatto puramente istituzionale. La democrazia sono le istituzioni? Sì sono le istituzioni. Ma è molto più di questo. La democrazia è votare ogni quattro o cinque anni? Sì, ma è molto di più di questo. È eleggere il Parlamento? Sì, ma è molto di più di questo. E‘ rispettare le regole dell’alternanza? Sì, ma è molto di più di questo. Questo è il modo liberale, fossilizzato di intendere la democrazia in cui a volte ci si blocca. La democrazia sono valori? Sono valori, principi organizzativi e di comprensione del mondo : la tolleranza, il pluralismo, la libertà di opinione, la libertà di associazione. Certo, sono principii, sono valori, ma non sono solo  principi e valori. Sono istituzioni ma non sono solo istituzioni.

La democrazia è pratica, la democrazia è azione collettiva. La democrazia, in fondo, è la crescente partecipazione alla gestione dei beni comuni che una società possiede. C’è democrazia se nel comune che possediamo i cittadini partecipano. Se abbiamo l’acqua come patrimonio comune, allora la democrazia è partecipare alla gestione dell’acqua. Se abbiamo come patrimonio comune l’idioma, la lingua, la democrazia è la gestione comune dell’idioma. Se abbiamo come patrimonio comune le foreste, la terra, la conoscenza, democrazia è la gestione comune di questi beni, crescente partecipazione comune nella gestione delle foreste, dell’ acqua, dell’aria, delle risorse naturali. Avremo democrazia nel senso vivo, non fossilizzato, del termine se la popolazione (e la sinistra deve lavorare per questo) partecipa a una gestione comune delle comuni risorse, istituzioni, diritti e ricchezze.

I vecchi socialisti degli anni ’70 dicevano che la democrazia doveva bussare alla porta delle fabbriche. E‘ una buona idea, ma non è sufficiente. Deve bussare alla porta delle fabbriche, alla porta delle banche, delle imprese, delle istituzioni, alla porta delle risorse, alla porta di tutto ciò che è comune alle persone.

Il nostro delegato della Grecia mi chiedeva sul tema dell’acqua. Come abbiamo iniziato in Bolivia? Con un  tema basilare di sopravvivenza, l’acqua ! E  intorno all’acqua, che è una ricchezza comune che veniva espropriata, il popolo ha intrapreso una “guerra” e recuperato l’acqua per la popolazione. Recuperammo non solo l’acqua. Dopo abbiamo iniziato un’altra guerra sociale e abbiamo recuperato il gas ed il petrolio, le miniere e le telecomunicazioni e manca ancora molto da recuperare. Ma l’acqua fu il punto di partenza per aumentare la partecipazione dei cittadini nella gestione del comune, dei beni comuni, di una società, di una regione.

In terzo luogo, la sinistra deve recuperare la rivendicazione dell’universale, delle idee universali, del comune. La politica come bene comune.  La partecipazione come partecipazione alla gestione dei beni comuni. Il recupero del comune come diritto: il diritto al lavoro, il diritto alla pensione, il diritto all’istruzione gratuita, diritto alla salute, all’aria pulita, il diritto alla tutela della madre terra, il diritto alla protezione della natura. Sono diritti ma sono universali,  sono beni comuni universali, sui quali la sinistra rivoluzionaria deve proporre misure concrete, obiettivi e di mobilitazione. Stavo leggendo sul giornale come in Europa si stanno utilizzando fondi pubblici per salvare  proprietà private. Questa è un’aberrazione. Hanno poi usato soldi dei risparmiatori europei per salvare le banche. Stanno usando il comune per salvare il privato.  Il mondo va alla rovescia! Bisogna fare l’opposto! Usare la proprietà privata per salvare e aiutare il bene comune. Non i beni comuni per salvare la proprietà privata. Le banche devono subire un processo di democratizzazione e di socializzazione della loro gestione. In caso contrario esse finiscono per prendersi non solo il vostro lavoro, ma la vostra casa, la vostra vita, la vostra speranza, tutto; e questo è qualcosa che non possiamo permettere.

Dobbiamo anche affermare nella nostra proposta, come  sinistra, un nuovo rapporto metabolico tra uomo e natura. In Bolivia, per nostra tradizione indigena, noi chiamiamo questo un nuovo rapporto tra uomo e natura. Come dice il presidente Evo, “la natura può esistere senza l’uomo, ma l’uomo non può esistere senza la natura”. Ma non bisogna cadere nella logica della green economy, che è una forma ipocrita di ecologismo.

Ci sono aziende che si presentano a  voi europei come protettrici della natura e dell’aria pulita. Ma queste stesse aziende portano in Amazzonia, in America o in Africa i rifiuti che qui si producono. Qui sono difensori e sostenitori e là diventano predatori. Hanno convertito la natura in un altro business. La conservazione ecologica radicale non è un nuovo affare né un nuovo luogo di una nuova logica imprenditoriale. È necessario ripristinare una nuova relazione, che è sempre tesa. Perché la ricchezza che deve soddisfare i bisogni umani richiede di trasformare la natura e nel modificare la natura modifichiamo la sua esistenza, modifichiamo il bios. Quando cambiamo il vivente spesso distruggiamo anche la natura e anche gli esseri umani. Il capitalismo non si preoccupa di questo perché per lui non è altro che un affare. Ma per noi sì, per la sinistra, per l’umanità, per la storia dell’umanità. Abbiamo bisogno di rivendicare una nuova logica di rapporto non direi armonioso, ma bensì metabolico, reciprocamente vantaggioso, tra ambiente naturale e essere umano.

Infine, non c’è dubbio che abbiamo bisogno di rivendicare la dimensione eroica della politica. Hegel vedeva la politica nella sua dimensione eroica. Seguendo Hegel suppongo, Gramsci diceva che nelle società moderne, la filosofia e un nuovo orizzonte di vita si devono convertire in fede nella società o possono esistere solo  come fede all’interno della società. Questo significa che abbiamo bisogno di ricostruire la speranza, che la sinistra deve essere la struttura organizzativa, flessibile, sempre più unificata, che sia capace di rivitalizzare la speranza nelle persone, un nuovo senso comune, una nuova fede – non nel senso religioso del termine – ma un nuovo credo largamente diffuso nel nome del quale le persone potrebbero dedicare eroicamente tempo, sforzo, spazio e dedizione.

Voglio sottolineare l’osservazione della compagna,  che ci diceva che oggi abbiamo qui riunite 30 organizzazioni politiche. Eccellente! Questo significa che è possibile incontrarsi, è possibile uscire da questi spazi ristretti. La sinistra così debole oggi in Europa non può permettersi il lusso di distanziarsi dai suoi compagni. Ci può essere differenza su 10 o 20 punti ma siamo d’accordo su 100. Questi 100 devono essere i punti di accordo, di vicinanza, di lavoro. E lasciamo gli altri 20 per dopo. Siamo troppo deboli per darci il lusso di continuare con dispute dottrinali e di piccoli feudi, allontanandoci dagli altri. Dobbiamo ripristinare nuovamente una logica gramsciana per unificare, coordinare, promuovere…

È necessario prendere il potere dello Stato, lottare per lo Stato, ma non dobbiamo mai dimenticare che lo Stato, piuttosto che una macchina, è una relazione. Più che materia è idea. Lo Stato è fondamentalmente idea e un po’ materia. È materia in quanto relazione sociale,  forza, pressioni, bilancio, accordi, regolamenti, leggi. Ma è fondamentalmente idea, in quanto credenza in un ordine comune, in un senso di comunità. In fondo, la lotta per lo stato è una lotta per un nuovo modo di stare insieme, per um  un nuovo universalismo. Per una sorta di universalismo che unifichi volontariamente le persone.

Ma questo richiede prima una vittoria sul terreno delle convinzioni, una vittoria sui nostri avversari nelle parole e nel senso comune; aver precedentemente battuto i concetti dominanti della destra, nei discorsi, nella visione del mondo, nella percezione morale che abbiamo delle cose. E questo processo richiede un lavoro molto arduo. La politica non è solamente una questione di rapporti di forza, capacità di mobilitazione. In un dato momento sarà questo, ma è fondamentalmente persuasione, organizzazione, senso comune, convinzione, idee condivise, giudizio e pregiudizio condiviso rispetto all’ordine mondiale. E qui la sinistra non si può accontentare soltanto dell’unità delle organizzazioni di sinistra, deve espandersi nell’ambito dei sindacati che sono il sostegno della classe lavoratrice e la sua forma organica di unificazione.

Bisogna fare attenzione, compagni e compagne, anche a altre forme inedite di organizzazione della società. La riconfigurazione delle classi sociali in Europa e nel mondo, conduce a forme differenti di unificazione, forme più flessibili, meno organiche, forse più territoriali meno che per luoghi di lavoro. Tutto è necessario. L’unificazione per luoghi di lavoro, l’unificazione territoriale, l’unificazione per temi, l’unificazione ideologica. Si tratta di un insieme di forme flessibili di fronte a cui la sinistra deve avere la capacità di articolare, proporre e andare avanti.

Permettetemi, a nome del presidente e mio, di fare i miei complimenti, di rallegrarmi per questo incontro, di  augurarvi e chiedervi – in modo rispettoso e affettuoso – lottate, lottate, lottate! Non ci lasciate soli, noi altri popoli che stiamo lottando in isolamento in alcuni luoghi, in Siria, in Spagna, in Venezuela, in Ecuador, in Bolivia. Non lasciateci soli. Abbiamo bisogno di voi. Più ancora! Abbiamo bisogno di un’Europa che non veda soltanto da lontano quello che succede in altre parti del mondo, ma, ancora una volta, un’Europa che torni a  illuminare il destino del continente e il destino del mondo.

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