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La morte è come togliersi una scarpa stretta, diceva Ram Dass (aka Richard Alpert). Ieri la scarpa se l’è tolta ed è partito per l’ultimo viaggio. Aveva 88 anni anni ed era pronto, come raccontava in una recente intervista al New York Times. E’ stato un protagonista della controcultura e del movement degli anni ’60 e ’70, poi della New Age (secondo Michael York ne fu l’iniziatore). Fu espulso dove insegnava psicologia e con Timothy Leary, Allen Ginsberg, Ken Kesey fu una delle icone della stagione degli Acid Test, dell’Human Be In di San Francisco, della Summer of Love, delle Pantere nere e dell’opposizione alla guerra in Vietnam, ecc. Aveva una visione più incentrata sulla trasformazione interiore che sulla rivoluzione di strada creando malumori in militanti come Huey P.Newton o Abbie Hoffman ma anche fornendo ispirazione per nuove modalità di azione politica. Dopo un lungo soggiorno in India cambiò nome e passò dalla psichedelia alla meditazione. Per saperne di più una rassegna degli articoli usciti sulla stampa americana sul blog dell’Allen Ginsberg Project. Il suo libro “Be here now” (1971) fu una sorta di bibbia per la generazione hippie post-Woodstock venduto in 2 milioni di copie (George Harrison scrisse anche una canzone). Nel 2014 è uscito un doc. su Ram Dass e il suo vecchio compagno Timothy Leary. Eccovi un remix degli ultimi discorsi di questo vecchio rivoluzionario psichedelico dei sixties che a suo modo non ha mai rinunciato alla lotta. Mindfullness, New Age, meditazione, ecc. non fanno necessariamente rima con disimpegno politico e sociale. Nel 1978 aveva fondato SEVA, un’organizzazione dedita alla prevenzione della cecità nel sud del mondo, nelle comunità povere e nelle riserve indiane degli USA e aveva promosso molti altri progetti.Â
“You can be still and still moving. Content even in your discontent”
Buona lettura!
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Discorso agli operai olandesi tenuto dopo il congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori tenutosi a L’Aja.
Nel secolo diciottesimo i re e i potenti usavano riunirsi all’Aia per discutere gli interessi delle loro dinastie. È lì che noi abbiamo voluto tenere le assise del lavoro, malgrado i timori che si è voluto ispirarci. È in mezzo alla popolazione più reazionaria che abbiamo voluto affermare l’esistenza, l’estensione e la speranza nel futuro della nostra grande Associazione.
Si è parlato, quando si è conosciuta la nostra decisione, dei nostri emissari inviati a preparare il terreno. Si, non neghiamo affatto di avere degli emissari: ma la maggior parte d’essi non è sconosciuta. I nostri emissari all’Aja sono stati quegli operai il cui lavoro è così duro, come quello dei nostri emissari ad Amsterdam; i quali sono anch’essi lavoratori, operai che lavorano sedici ore al giorno. Ecco i nostri emissari: noi non ne abbiamo altri. E in tutti i paesi in cui ci presentiamo, li incontriamo disposti ad accoglierci con simpatia, poiché essi comprendono ben presto che noi perseguiamo il miglioramento delle loro condizioni.
Il Congresso dell’Aja ha fatto tre cose principali: ha proclamato la necessità per le classi lavoratrici di combattere, sul terreno politico come sul terreno sociale, la vecchia società che crolla, e noi ci rallegriamo di vedere entrare finalmente questa risoluzione di Londra nei nostri statuti. Si era formato, in mezzo a noi, un gruppo che preconizzava l’astensione degli operai in materia politica. Noi abbiamo tenuto a dire quanto consideriamo dannosi e funesti per la nostra causa questi principi. L’operaio un giorno dovrà prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro; deve rovesciare la vecchia politica che sostiene le vecchie istituzioni: altrimenti non vedrà mai, come gli antichi cristiani che l’hanno negletto e sdegnato, l’avvento del regno dei cieli in questo mondo.
Noi non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Sappiamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi e le tradizioni dei vari paesi, e non neghiamo che esistono dei paesi, come l’America, l’Inghilterra e, se io conoscessi meglio le vostre istituzioni, aggiungerei l’Olanda, in cui i lavoratori possono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici. Se ciò è vero, dobbiamo però riconoscere che, nella maggior parte dei paesi del continente, è la forza che deve essere la leva delle nostre rivoluzioni: è alla forza che bisognerà fare appello per instaurare il regno del lavoro.
Il congresso dell’Aja ha attribuito al Consiglio generale nuovi e più estesi poteri. In effetti, nel momento in cui i re si riuniscono a Berlino dove, da questo incontro dei potenti che rappresentano il feudalesimo e il passato, debbono venire nuove e più violente misure di repressione contro di noi; nel momento in cui la persecuzione si organizza, il Congresso dell’Aja ha creduto giustamente che era saggio e necessario aumentare i poteri del suo Consiglio generale e centralizzare, per la lotta che sta per essere intrapresa, un’azione che l’isolamento renderebbe impotente. E d’altra parte, a chi se non ai nostri nemici potrebbe dare ombra l’autorità del Consiglio generale? Ha egli dunque una burocrazia, una polizia armata per farsi obbedire? La sua autorità non è unicamente morale, e ciò che decreta, non lo sottomette forse alle federazioni che sono incaricate dell’esecuzione? In queste condizioni, senza esercito, senza polizia, senza magistratura, i re sarebbero deboli ostacoli per la marcia della Rivoluzione, il giorno in cui essi fossero ridotti a derivare il loro potere dall’influenza e dall’autorità morale.
Infine il Congresso dell’Aja ha trasportato la sede del Consiglio generale a New York. Molti, ed anche tra i nostri amici, sono sembrati stupiti di una simile decisione. Dimenticano dunque che l’America diventa il mondo dei lavoratori per eccellenza; che tutti gli anni un mezzo milione di uomini, di lavoratori, emigrano verso quest’altro continente, e che bisogna che l’Internazionale metta radici vigorose in questa terra dove ove domina l’operaio? E d’altra parte, la decisione del congresso da’ al Consiglio generale il diritto di aggiungersi i membri che giudicherà necessari ed utili per il bene della causa comune. Attendiamo dalla sua saggezza che sappia scegliere degli uomini all’altezza del loro compito e che sappiano tenere salda in Europa la bandiera della nostra Associazione.
Cittadini, pensiamo a questo principio fondamentale dell’Internazionale: la solidarietà. Con il fondare su solide basi, tra tutti i lavoratori di tutti i paesi, questo vivificante principio, noi raggiungeremo il grande scopo che ci proponiamo! La rivoluzione deve essere solidale e noi ne troviamo un grande esempio nella Comune di Parigi, che è caduta perché in tutti i centri, a Berlino, a Madrid, ecc. non è sorto un grande movimento rivoluzionario, corrispondente a questa suprema sollevazione del proletariato parigino.
Per quello che mi riguarda, continuerò il mio compito e lavorerò costantemente per fondare questa profonda solidarietà, feconda per l’avvenire, tra tutti i lavoratori. No, io non mi ritiro affatto dall’Internazionale, e il resto della mia vita sarà consacrato, come i miei sforzi passati, al trionfo delle idee sociali che porteranno un giorno, siatene certi, l’avvento universale del proletariato!
Testo pubblicato da La Libertà, Bruxelles 15 settembre 1872 e da Algemen Handelsblad, Amsterdam 10 ottobre 1872.
[da Marx – Engels, Opere scelte, a cura di Luciano Gruppi, Roma, Editori riuniti, 1966]

Il fallimento elettorale del Partito Laburista nel Regno Unito dimostra che, affinché la sinistra progressista abbia successo, dovrà diventare notevolmente più rivoluzionaria.
L’approccio “dolcemente, dolcemente” non funziona.
Poiché, in un certo senso, le elezioni riguardavano la Brexit, la prima cosa che colpisce è l’asimmetria nella posizione dei due grandi partiti.
I Tories ripetevano costantemente il loro mantra di “Get Brexit done!”, Mentre la posizione del Labour era la peggiore possibile.
Sapendo bene che i loro sostenitori erano quasi simmetricamente divisi tra “Remainers” e “Leavers”, la leadership del partito aveva paura di scegliere una parte e quindi perdere gli elettori contro di essa – ma, come dice il proverbio, se provi a sederti su due sgabelli contemporaneamente potresti cadere nello spazio che li separa. Ciò che ha peggiorato le cose è stato il modo in cui la vera posizione di Corbyn era più o meno nota: voleva una Brexit, solo diversa.
Il leader ora uscente del partito voleva che il Regno Unito si sbarazzasse delle regole finanziarie dell’UE, al fine di perseguire politiche di sinistra più radicali. Qualunque cosa pensiamo di questa scelta – ci sono buone ragioni a favore e contro la Brexit – il partito laburista ha evitato un dibattito aperto su di essa e ha mascherato la sua indecisione con una formula catastrofica: “Lasciamo che il popolo decida!”
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20 anni fa in questi giorni la rivolta di Seattle bloccava i lavori del WTO. Avevo seguito insieme all’ottimo Lorenzo Calamosca la preparazione del controvertice in rete per mesi. Quando la notizia fece irruzione nei telegiornali ne fui davvero entusiasta. La vecchia talpa risbucava fuori per me non inaspettatamente negli USA. Scrissi immediatamente una lettera a Liberazione che fu pubblicata il 3 dicembre. Il giornale la intitolò “Lotta stellare”. Non male direi.
Compagni sono felice, ho visto il mio partito* nelle strade di Seattle. Se cerchiamo l’evento di sinistra è lì che dobbiamo guardare. E’ multicolore, allegro, creativo, determinato. E’ di classe, di genere, multirazziale, ambientalista. E’ gioioso, pieno di ritmo, simpatico. Sembra uscito dalla lontana profezia di Ginsberg, rende meno esotico il messaggio di Marcos. Sul piano dell’immaginario sbaraglia tutte le Hollywood del potere. La polizia dell’Impero è nera e tetra come i cattivi di “Guerre Stellari”, i manifestanti luminosi come i ribelli di Luke Skywalker. Nei telegiornali irrompe come una sorpresa inattesa, ma ha il sapore delle mille esperienze che continuano ostinatamente a proliferare e a cercarsi. Internet non la usano solo i padroni. La notizia è che le proteste bloccano i negoziati. L’ulivo mondiale decreta il coprifuoco. La disobbedienza civile, l’indignata autodifesa, l’azione diretta, cioè la responsabilità di opporsi in prima persona, forse sono quello che è mancato nel nostro opporci alla guerra. Non è più la Los Angeles del gesto distruttivo e disperato su cui mi fecero ragionare Portelli e la Rossanda, è concatenamento consapevole di mille ragioni di rivolta. La lotta di classe non è finita nel capitalismo postmoderno, occorre come al solito reinventarla. Abbiamo bisogno di buoni esempi, riproducibili e contagiosi. Come le canzoni di Manu Chao.
*Scrivendo “mio partito” mi riferivo sia alla presenza di Rifondazione Comunista a Seattle (unico partito italiano presente con Sara Fornabaio a cui invio un bacione) sia al partito come lo concepiva Marx nel periodo dell’Internazionale.

Ho tradotto un articolo del giornalista e storico indiano Vijay Prashad e dell’economista turco E. Ahmet Tonak
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato domenica 6 ottobre al presidente turco Recep Tayyip Erdogan che le truppe statunitensi all’interno della Siria non avrebbero difeso le Forze Democratiche Siriane, che hanno costruito un’enclave all’interno della Siria lungo una parte del confine turco. Le forze democratiche siriane (SDF) sono costituite in gran parte da gruppi curdi, che hanno istituito questa forza armata per difendere l’enclave principalmente curda nella Siria settentrionale. Quando gli Stati Uniti iniziarono il loro attacco allo Stato Islamico (ISIS), le SDF divennero le forze di terra sotto i bombardieri statunitensi. Ora, gli Stati Uniti hanno deciso di tradire il sacrificio delle SDF. La Turchia ha precedentemente minacciato di attaccare le SDF e altri gruppi curdi all’interno della Siria a est dell’Eufrate. Nel 2014 e 2015, la Turchia ha segnalato che avrebbe invaso la Siria. Nell’agosto 2016, l’esercito turco ha attraversato il confine con la copertura aerea degli Stati Uniti. Erdogan disse – a quel tempo – che la Turchia avrebbe attaccato sia l’ISIS sia il gruppo della milizia curda, Unità di protezione del popolo (YPG). Questa operazione, che si trovava in gran parte intorno alla città siriana di Jarabulus lungo il confine tra Siria e Turchia, divenne nota come Operazione Scudo dell’Eufrate. L’intervento del 2016 ha aperto le porte a due ulteriori interventi nel nord di Idlib (2017) e in Afrin (2018), l’ultima operazione con un nome orwelliano: Operazione Ramoscello di Ulivo. Si trattava di attacchi mirati e non di una guerra totale contro SDF e altre forze siriane.
Ora, il governo di Erdogan si sta preparando a entrare in Siria per una grande operazione militare contro le SDF. Le forze statunitensi hanno già lasciato i posti di osservazione a Tel Abyad e Ras al-Ain, entrambi luoghi chiave in cui gli Stati Uniti hanno monitorato le truppe turche e hanno protetto le SDF dagli attacchi turchi. Quello scudo ora è stato rimosso. Le forze statunitensi rimangono nella regione, ma vi sono tutte le indicazioni che se ne andranno dai principali hub delle SDF.
Le SDF sono ora vulnerabili alla piena potenza dell’esercito turco. I leader politici delle SDF affermano che avrebbero difeso la loro enclave – nota come Rojava – “a tutti i costi”. L’anno scorso, Ilham Ehmed, copresidente del Consiglio democratico siriano, ha avvertito che la Turchia è determinata a entrare in questa “zona sicura” (o quello che gli Stati Uniti chiamano un “meccanismo di sicurezza”). Ehmed disse – prima di questo recente annuncio – che la Turchia invaderà il Rojava, attaccherà duramente le SDF e risistemerà i tre milioni di rifugiati siriani che si trovano ora in Turchia. Questi rifugiati non provengono dalla zona ad est dell’Eufrate. Non solo il governo turco distruggerà il Rojava, ma ripulirà etnicamente l’area portando un gran numero di siriani non curdi. È importante ricordare che la popolazione dei curdi siriani è di circa due milioni. Ehmed ha espresso la sua preoccupazione per questo tentativo di estinguere i curdi siriani del Rojava.
Cosa significherà un’invasione turca per la zona?
Distruggerà l’enclave curda siriana del Rojava. Nonostante tutti i suoi grandi limiti, il governo del Rojava ha sperimentato varie forme di democrazia, compresa la democrazia economica e culturale.
Distruggerà l’integrità sociale del mondo culturale a est dell’Eufrate. La deportazione di tre milioni di siriani, in gran parte dalla parte occidentale della Siria, cambierà il carattere di questa regione, che è la patria dei curdi siriani. A lungo termine, questo trasferimento di popolazione potrebbe annientare la società curda siriana. Inoltre, se la Turchia lo facesse, avrebbe violato l’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra (1949).
Potrebbe costringere le forze armate siriane a marciare sulla regione, per difendere i suoi confini. Nel parlamento iraniano, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha affermato che la Turchia dovrebbe rispettare i confini della Siria e che la Turchia deve consentire alle forze armate siriane di stabilire la propria presenza al confine. Se l’esercito siriano si sposta al confine, si aprirà la possibilità di uno scontro tra Siria e Turchia, che potrebbe portare a tensioni tra le forze armate di Iran, Russia e Stati Uniti.
Dal 2017 Iran, Russia, Siria e Turchia fanno parte del Gruppo Astana, il cui scopo era trovare un modo per porre fine alla sanguinosa guerra in Siria. L’intervento turco in Siria aumenterà la possibilità del risveglio della guerra all’interno della Siria. I gruppi di fiancheggiatori mercenari dei turchi che facevano parte dell’attacco al governo siriano saranno incoraggiati a provare ancora una volta a rovesciare il governo di Damasco.
Se le forze iraniane e statunitensi si scontreranno in Siria, ciò darebbe agli Stati Uniti un altro motivo per aprire una guerra più piena contro l’Iran, incluso il bombardamento dell’Iran stesso?
Rafforzerà un governo Erdogan fortemente indebolito.
Vale la pena essere allarmati da questi sviluppi. Le Nazioni Unite hanno dato la valutazione corretta della situazione. Il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per la Siria, Panos Moumtzis, ha dichiarato: “Non sappiamo cosa succederà … Stiamo preparando il peggio”. Dovremmo farlo anche noi.
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