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 Gli USA sorpassano tutti i record di genocidio
Il 9 settembre 1971 usciva Imagine, il disco di John Lennon che notoriamente non piace alla leghista Susanna Ceccardi e alla missina Giorgia Meloni. Le fascioleghiste seguaci di Trump hanno accusato la canzone di essere marxista, comunista e globalista. I giornalisti progressisti e di centrosinistra le hanno derise. In realtà le due non hanno tutti i torti mentre sono proprio i loro critici a banalizzare il messaggio di Lennon e Ono. Ad aprire la strada alla polemica antilennoniana era stato il giornale di CL ai tempi della strage del Bataclan definenendo Imagine “un inno alla violenza”.
Aveva davvero ragione Jerry Rubin: «I giornali di destra con la loro stupidità spesso sono i nostri migliori alleati». Come ho scritto ripetutamente vanno ringraziati questi esponenti delle destre per l’omaggio involontario al compagno John Lennon, probabilmente la rockstar che più di ogni altra ha gettato il proprio corpo nella lotta negli anni ’60 e ’70.
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I talebani hanno celebrato il ventesimo anniversario dell’11 settembre in modo sorprendente. Entro una settimana dall’annuncio da parte degli Stati Uniti che avrebbero ritirato le proprie forze dall’Afghanistan l’11 settembre, i talebani hanno conquistato gran parte del paese e il 15 agosto la capitale Kabul è caduta. La velocità è stata sorprendente, l’acume strategico notevole: un’occupazione di 20 anni si è conclusa in una settimana, mentre gli eserciti fantoccio si disintegravano. Il presidente fantoccio è salito su un elicottero in Uzbekistan, poi su un jet per gli Emirati Arabi Uniti. E’ stato un duro colpo per l’impero americano e i suoi stati subalterni. Nessuna quantità di propaganda può coprire questa debacle.
Poco più di un anno prima degli attacchi dell’11 settembre, Chalmers Johnson, storico della West Coast e un tempo sostenitore delle guerre di Corea e Vietnam, nonché consulente della CIA, pubblicò un libro preveggente intitolato Blowback: The Costs and Consequences of American Empire Il libro, che fu praticamente ignorato quando venne pubblicato per la prima volta ma in seguito è diventato un best seller, si legge sia come un inquietante prologo che come un epitaffio bruciante degli ultimi 20 anni. “Blowback”, come ha avvertito Johnson,
è un modo sintetico per dire che una nazione raccoglie ciò che semina, anche se non conosce o non comprende appieno ciò che ha seminato. Data la loro ricchezza e il loro potere, gli Stati Uniti saranno il primo destinatario nel prossimo futuro di tutte le forme più prevedibili di contraccolpo, in particolare gli attacchi terroristici contro gli americani dentro e fuori le forze armate ovunque sulla terra, inclusi gli Stati Uniti.
Ventiquattr’ore dopo che quel blowbck aveva sbalordito il pianeta l’11 settembre, con messaggi di solidarietà che arrivavano da ogni capitale, compresa l’Avana, il criminale di guerra Donald Rumsfeld, recentemente scomparso, dichiarava in una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale che gli stati recalcitranti, indipendentemente dalla loro coinvolgimento nell’11 settembre, avrebbero dovuto pagarne il prezzo. Di conseguenza, suggeriva: “Perché non dovremmo andare contro l’Iraq, non solo contro Al Qaeda?” Il giorno successivo, Paul Wolfowitz, il numero 2 del Dipartimento della Difesa, amplificava questo messaggio sollecitando una “campagna ampia e sostenuta” che includesse “la fine degli stati che sponsorizzano il terrorismo”. Nel giro di una settimana, lo stesso Grande Decisore, George W. Bush, dava il via a una guerra totale: “Colpiamoli duramente. Vogliamo segnalare che questo è un cambiamento rispetto al passato. Vogliamo indurre altri paesi come la Siria e l’Iran a cambiare punto di vista”. Continue reading Tariq Ali: La guerra al terrore, 20 anni di spargimenti di sangue e delusioni
Un tale scrive: come mai i comunisti e gli ambientalisti sono a favore dei vaccini? Non erano contro le multinazionali?
La risposta è semplice: siamo contro lo strapotere delle multinazionali non contro la medicina.
E infatti, insieme a tutte le realtà che si battono per una sanità pubblica e per tutti (da Medicina Democratica a Emergency), abbiamo promosso una campagna europea dal titolo NESSUN PROFITTO SULLA PANDEMIA #NoProfitOnPandemic chiedendo che siano sospesi i brevetti e che quindi i vaccini siano liberati dal monopolio delle multinazionali. Se non lo avete già fatto vi invito a firmare: https://noprofitonpandemic.eu/it/
Dunque i comunisti si battono per l’accesso di tutti i popoli alla vaccinazione e per il diritto alla cura per tutti.
Per noi il problema non è il vaccino ma la subalternità dei governi occidentali a poche multinazionali farmaceutiche.
Di fronte alla pandemia ci indigna che l’Unione Europea ponga il veto in sede di Organizzazione Mondiale del Commercio alla richiesta di India, Sud Africa e altri 100 stati di moratoria sui brevetti e trasferimento delle tecnologie.
Ci indigna il fatto che a miliardi di esseri umani sia negato l’accesso al vaccino non la presunta “dittatura sanitaria” che sarebbe stata instaurata in Italia.
Ci indigna che poche multinazionali (peraltro finanziate per la ricerca dai governi) possano fare superprofitti alzando i prezzi mentre sarebbe possibile produrre una quantità molto maggiore di vaccini a basso costo (leggi articolo).
La prima cosa che balza agli occhi leggendo sui social questo presunto anticapitalismo novax è che siano ignote le campagne internazionali che come movimenti e popoli del sud del mondo sono state condotte negli ultimi decenni. Per esempio quella per l’accesso ai farmaci antiAids che vide in prima fila Nelson Mandela. La ricordava Gino Strada in un articolo da rileggere e diffondere. Â
La tesi che i vaccini sarebbero una trovata delle multinazionali per far quattrini e che i governi ce li imporrebbero per far guadagnare i capitalisti rientra nella categoria del “socialismo degli imbecilli” che Lenin usava per bollare l’antisemitismo.
A Cuba non ci sono multinazionali a vendere vaccini (anche perchè c’è il criminale bloqueo USA), ma si vaccina lo stesso la popolazione.Â
Cuba si autoproduce i vaccini attraverso i propri istituti di ricerca e la propria industria farmaceutica pubblica. Non c’è business, ma ci sono i vaccini.
Noi proponiamo che anche in Italia e in Europa si sviluppi un’industria farmaceutica pubblica come a Cuba e come proponeva il mio concittadino Federico Caffè, riformista socialista e keynesiano che oggi sarebbe considerato un pericoloso estremista.
Il fatto che i vaccini siano prodotti da imprese capitalistiche non implica che non servono. In una società capitalistica quasi tutte le merci sono prodotte da imprese private. Ma questo non implica che non siano utili (per dirla con Marx che non abbiano un valore d’uso). Noi pensiamo che i farmaci e la sanità (e tante altre cose e servizi) dovrebbero essere sottratti alla logica del “mercato” e del profitto ma questo non implica che dobbiamo rinunciare alle cure o ai vaccini.
Da sempre critichiamo il ruolo di Big Pharma nel condizionare negativamente le politiche sanitarie pubbliche. Ma una cosa è la lotta su basi scientifiche che si conduce contro la lobby dell’industria farmaceutica (o della sanità privata) e altra il rifiuto di vaccini o farmaci sulla base di teorie complottiste.
Per esempio noi siamo per la medicina territoriale e la prevenzione (di cui la lotta alle nocività e all’inquinamento sono fondamentali) più che per ingozzare i cittadini di farmaci come vorrebbero multinazionali.
Non si tratta di avere un culto acritico della Scienza e/o della Medicina. E infatti i marxisti mettono in guardia dall’uso capitalistico della scienza o del “progresso tecnologico” da un secolo. Ma senza atteggiamenti luddisti. La posizione di Marx (e più in generale dei socialcomunisti lungo due secoli) verso la scienza e la tecnica non era certo quella di Heidegger.
Il sapere scientifico e tecnologico per le/i comuniste/i (ma fortunatamente non solo per noi) va messo al servizio del benessere dell’umanità intera e non del profitto di pochi. E da quando abbiamo consapevolezza ecologica ci poniamo la questione di superare quella che Marx definiva “frattura metabolica” nel ricambio organico tra società umane e natura.
Scienziati e ecologisti hanno messo in luce come le pandemie come quella del maledetto covid hanno origini in un modello capitalistico di aggressione dell’ambiente naturale e nelle modalità con cui allevamenti e agrobusiness si sono sviluppati su scala mondiale.
E’ ovvio che per noi, comunisti e/o ambientalisti, bisogna andare alla radice di questi processi ma questo non implica che nel frattempo non si sviluppino politiche sanitarie pubbliche antipandemiche per proteggere le popolazioni.
Per questo abbiamo sostenuto non solo le vaccinazioni ma anche le misure di restrizione e tracciamento che sono indispensabili per affrontare una pandemia.
Non crediamo in una visione della libertà propria del neoliberismo. Margareth Thatcher sosteneva che “la società non esiste”. I suoi nipotini trumpiani sono scesi in piazza contro mascherine e chiusure con cartelli con sopra scritto “distanziamento sociale è comunismo” (un gran bel complimento per noi comuniste/i!).
Michel Foucault, citato da Marco D’Eramo nel suo libro Dominio (Feltrinelli, 2021), parlava di “stato-fobia” dei neoliberisti.
In questa visione paranoica che vede il panopticon e il leviatano nelle misure di prevenzione sanitarie dentro un’emergenza pandemica – che ha contagiato filosofi “di sinistra” come Agamben* forse perchè più heidegerriano che marxiano – si intravede un’ideologia del rifiuto del ruolo del pubblico che è stata utilizzata abbondantemente per creare consenso intorno alle politiche di saccheggio e privatizzazione del capitalismo neoliberista.
Sinceramente preoccupa il contrario. Mentre grandi corporations sanno tutto di noi, usano e vendono i nostri dati, ci manipolano e condizionano, i nostri stati non sono stati in grado di fare un capillare tracciamento e non avevano neanche aggiornato il piano antipandemico.
Sulla storia dei vaccini e del relativo scetticismo consiglio questo saggio di Critica Marxista:
* Agamben, che cazzo dici?* Come la filosofia ha fallito con la pandemia
 ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA’ FAQ SU COVID E VACCINI
https://www.iss.it/covid19-faq

 Re Amanullah e sua moglie Soraya in Europa, 1927-1928
Vijay Prashad è un intellettuale e giornalista indiano, militante comunista e antimperialista, autore di molti libri e editore della casa editrice Left Words. In un articolo sulla rivista indiana Frontline racconta sinteticamente il lungo conflitto in Afghanistan tra riformatori e conservatori e come il colonialismo occidentale abbia usato questi ultimi.Â
Per cento anni, il popolo afghano ha lottato tra due visioni della propria società : una che vedeva la necessità di riformare la società attraverso l’emancipazione delle donne e l’avanzamento delle minoranze etniche, e l’altra che vedeva il futuro nel passato e chiedeva che visioni più conservatrici dominassero nella vita sociale. I talebani sono l’apoteosi della seconda via.
Nell’ottobre 1911, Mahmud Beg Tarzi (1865-1933) iniziò a pubblicare un nuovo brillante giornale a Kabul chiamato Siraj al-akhbar (“La torcia delle notizie”). Tarzi, di famiglia aristocratica, era cresciuto in esilio nell’Impero ottomano, dove aveva assorbito l’aria riformatrice dal grande intellettuale itinerante Jamal ad Din al Afghani (1838-1897).
La rivista promosse le riforme del re Habibullah, in parte motivate dal controllo britannico sull’Afghanistan (a partire dalla seconda guerra afgana del 1878-1880) e dalle correnti di modernità che Tarzi aveva vissuto a Istanbul. Tarzi sosteneva che la società non sarebbe progredita se l’istruzione delle donne non fosse stata posta al centro dell’agenda di riforma. Continue reading Vijay Prashad: La lunga lotta dell’Afghanistan tra riforme e conservatorismo
Il 16 agosto è morto a 88 anni Stanley Aronowitz, uno dei più importanti intellettuali militanti della sinistra radicale statunitense. Un socialista e marxista convinto i cui libri raramente sono stati tradotti in italiano al contrario di suoi articoli pubblicati su molte riviste e giornali nel corso dei decenni. Cornel West lo ha definito “il più importante studioso sul passato e il presente della classe operaia USA”. Aronowitz è stato un attivista della New Left degli anni ’60 che non ha mai abbandonato la lotta. Fu tra gli organizzatori della Marcia su Washington al termine della quale Martin Luther King tenne il celeberrimo discorso “I have a dream”. Nel 2014 aveva pubblicato un manifesto in 10 punti per un nuovo movimento operaio negli Usa. Una lettura utile anche per noi.
La contrattazione collettiva, la soluzione sindacale tradizionale, è caduta in disgrazia. Il contratto, un tempo compromesso tra lavoratori e capitale nel settore privato e tra lavoratori pubblici e Stato, non è più un compromesso. Oggi, il più delle volte, è la resa firmata di un sindacato. C’è un posto per la contrattazione; rimarrà una parte importante dell’arsenale dell’azione sindacale, ma le vecchie formule non funzionano più. È tempo di andare avanti. Ecco, dunque, le mie dieci tesi, o manifesto in dieci punti, per un nuovo movimento operaio, modestamente offerto:
1. La contrattazione su salari, condizioni di lavoro e benefici non deve necessariamente sfociare in un contratto. Se il potere collettivo dei lavoratori è sufficiente per evitare un accordo formale, stanno meglio senza. Se devono firmarne uno, non dovrebbe includere una disposizione di non sciopero. E se i lavoratori non sono abbastanza forti da imporre un accordo che non vieti gli scioperi durante la durata dell’accordo, allora la durata dell’accordo dovrebbe essere breve, diciamo un anno, e i termini dovrebbero specificare condizioni eccezionali in cui i lavoratori possono sospendere il proprio lavoro, come il licenziamento discriminatorio o un cambiamento arbitrario nel processo lavorativo. Continue reading I 10 punti di Stanley Aronowitz per un nuovo movimento operaio (2014)
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