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Mario Di Iorio: la città come ipertesto (1993)

Stamattina mi è arrivato un sms con la notizia purtroppo attesa della morte di Mario, un vecchio amico e un intellettuale di rara intelligenza e ironia. In anni e anni di passeggiate, convegni e chiacchierate Mario mi ha insegnato tante cose, raccontando storie e aneddoti o consigliando libri. Da tempo ci si vedeva e incrociava assai raramente ma ogni occasione era un vero piacere. Mario se ne va senza cerimonie avendo per una vita evitato come la peste il rischio di essere “palloso”. Voglio ricordarlo attraverso un suo intervento in un convegno a cui partecipammo insieme tanti anni fa*. Era il 1993. La sua fu una lectio magistralis che per me è stata davvero importantmario di iorioe.  Una lezione di stile che ho sempre tenuto presente nel corso degli anni. 

Il lettore di un ipertesto può scegliere il percorso, il plot, l’intreccio narrativo che vuole, che preferisce, addentrarsi in esso e farlo suo. La città è un ipertesto: dentro la città ognuno può scegliersi il percorso morale, il comportamento, il destino sociale che vuole, quale ruolo vuole ricoprire.

Ogni città racconta storie di persone e gruppi. Ognuno di noi può mettersi di fronte a queste storie di persone e gruppi. Ognuno di noi può mettersi di fronte a queste storie e decidere da che parte stare, cosa fare delle proprie possibilità, in che modo agire.

Mettere a nudo la città è indagare su chi opera bene e per il bene comune e chi per se stesso, su chi sta con la legalità e chi contro. Anche se i destini sembrano infiniti in realtà di fronte allo specchio sociale non lo sono: si può stare di qua o aldilà della linea che separa il giusto dall’ingiusto, il corretto dallo scorretto.

Forse ci sarà anche la crisi delle ideologie, ammettiamolo e ammettiamo anche che il valore che si dà a questa parola è solo negativo, anche se ciò non è vero, bene: se l’ideologia è morta, non è detto che anche lo stile debba esserlo.

Se lo stile personale, quello che ti definisce, che dà senso, coerenza e continuità all’immagine che di te ti sei costruito e che ami è vivo, deve esserlo per dirti chi sei, se sei uno che sta nel giusto o no, e per comunicarlo agli altri. Il tuo stile ti racconta agli altri non meno che a te stesso, ti identifica, rivela se sei un uomo o caporale, se sei un uomo di mondo o hai fatto il militare a Cuneo, per dirla con Totò.

Dal momento che chiunque si getta nella mischia politica dice di farlo per il bene della città e dei suoi abitanti, è questione di stile se tiene fede o meno alla dichiarazione. Lo stile è l’anticorpo delle seduzioni forti esercitate dal denaro, dalla corruzione, dal protagonismo, dalle logiche di gruppo.

Questo è quanto mi sento oggi di chiedere al candidato sul quale decido di puntare e al quale intendo dare un apporto significativo. Può sbagliare anche, qualche volta, ma non può tradire la promessa e lo stile che ha dichiarato di avere.

La monnezza morale e materiale che ha sommerso la città e l’intero paese richiede un nuovo tipo di eroe civile e lo stile, la totale e indefettibile aderenza ad esso, dovrà essere la sua qualità centrale e significante.

A questo proposito, a mò di parabola, se volete considerarla tale, mi piace raccontarvi, per sommi capi, l’intreccio di uno dei romanzi più belli e politici sulla città. La sua forza metaforica non è minore della sua attualità di fronte alle esperienze di vita civile alle quali abbiamo partecipato da vittime, da perdenti, finora. E’ sotto gli occhi di tutti quanto la criminalità organizzata, e il potere politico della DC e dei suoi satelliti e accoliti, siano strettamente intrecciati, presenti, operativi e attivi anche qui da noi.

Il romanzo è di Dashiell Hammett, il noto autore del “Falcone Maltese”, e s’intitola Red Harvest, alla lettera Raccolto Rosso, Messe Rossa. Il titolo italiano è qualunque: Piombo e Sangue.

Hammett, simpatizzante o forse addirittura iscritto al Partito Comunista americano, ma il dubbio resta e nemmeno la sua compagna Lilian Hellman ha mai saputo la verità, è stato uno dei pochi artisti americani che perseguito dai processi maccartisti non ha mai fatto nomi, scegliendo la prigione e rifiutando di riconoscere l’autorità morale di un branco di fascisti corrotti, come la storiografia ha ormai definitivamente messo in chiaro.

Il Continental Operator viene chiamato a Personville, che tutti chiamano Poisoville, dal direttore del giornale locale Donald Wilson, figlio del vecchio Elihu, proprietario delle miniere e delle fabbriche, praticamente il padrone della città.

Il C.O. non riesce ad incontrare il giornalista perché questi viene ucciso. Allora si mette a ficcanasare in giro e incontra un sindacalista Bill Quint che, tra un bicchiere e l’altro, gli racconta la storia recente della città.

Alcuni anni prima la crisi economica e le richieste dei sindacati avevano costretto gli operai a scioperare a oltranza. Per batterli e non concedere nulla loro, il vecchio Elihu chiamò gangsters e sabotatori. Vinse la battaglia m non riuscì più a liberarsi di loro. Aveva lasciato la città in mano alla malavita organizzata.

I nuovi padrini sono Pete il Finlandese, l’uomo degli alcolici, Lew Yad lo strozzinoche è pappa e ciccia col capo della poliziaNoona e max Thaler detto Bisbiglio il biscazziere.Sebbene in crisi, il vecchio capitalista semi infermo, è deciso a non gettare la spugna, ma per non scoprirsi troppo, ha dato al figlio la direzione del giornale dal quale cerca di combattere i gangsters.

C.O. va a casa del vecchio che lo scaccia dopo avere cercato, invano, di convincerlo che è stata la moglie francese di Donald a ucciderlo. Il detective, spinto da una specie di imperativo deontologico, comincia ad indagare e scopre che il suo cliente, prima di morire, ha staccato un assegno di 5000 dollari a favore di una certa Dinah Brand. Va in banca e, parlando con un giovane cassiere, apprende che l’assegno è stato sequestrato dalla polizia. Allora va dal capo degli sbirri che gli descrive Dinah come una femmina di lusso, cercatrice d’oro d’alto bordo, che attualmente se la fa con Bisbiglio. C.O. incontra la donna che confessa di avere ottenuto i 5000 dollari promettendo al giornalista rivelazioni sui gangsters, ma rivelazioni che il  giornalista non avrebbe mai potuto usare perché dimostrano l’antico coinvolgimento e l’accordo tra suo padre e i banditi i quali, per avidità, son l’uno contro l’altro armati per il possesso totale della città e dei traffici.

Il vecchio capitalista manda a chiamare il detective e gli propone, cambiando completamente strategia, di debellare il crimine della città. C.O. accetta tenendo a precisare che la ricerca della verità non sarà parziale e manipolata ad uso e consumo del nuovo cliente. Sarà la verità e basta. Nessuno dei due si fida, ma l’accordo viene formalizzato.

C.O. si mette al lavoro, che consiste nell’accendere la guerra dei banditi tra loro. Usando l’avidità della donna, che poi sarà uccisa anche lei, l’ottusità del corrotto capo della polizia, l’ambiguo sindacalista, e tutti quelli che può coinvolgere nel suo disegno, trasforma la città in un campo di battaglia e in un cimitero.

Alla fine tornano l’ordine e la legalità ma le tante morti hanno scosso il detective.

Solo la coerenza col suo stile, un detective deve sempre e fino in fondo fare il suo lavoro, gli permetterà di portare l’impresa al giusto epilogo e lo farà tornare un uomo passabilmente normale, insomma come tutti gli altri.

“Che ci potevo fare – dirà – se il miglior modo possibile era quello che portava inevitabilmente ad una processione di bare. Un lavoro simile non poteva essere svolto altrimenti”.

Quando sei un detective di fiction, o un candidato o un sindaco della realtà, il problema è sempre lo stesso: sei o non sei lo stile che hai dichiarato di essere.

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* Questo è il testo dell’intervento di Mario al convegno La città immaginata tenutosi a Pescara, presso la Camera del lavoro il 6 novembre 1993. L’intervento mi piacque tantissimo e chiesi a Mario il testo e lo pubblicai sulla rivista Fai la cosa giusta.

 

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