Community

Already a member?
Login using Facebook:
Powered by Sociable!

Archivi

Slavoj Zizek: Montagna alta, fiume profondo

Zizek_Tsipras

Un estratto da “Benvenuti in tempi in tempi interessanti” di Slavoj Zizek. Riguardo ai riferimenti alla crisi greca va tenuto presente che il testo è stato scritto nel 2011 prima della clamorosa crescita elettorale di Syriza.

Dato che oggi non c’è alcun discorso rivoluzionario in grado di produrre un tale effetto di verità, cosa dobbiamo fare? Qui il testo fondamentale è il meraviglioso saggio breve di Lenin A proposito dell’ascensione sulle alte montagne, scritto nel 1922 quando, dopo aver vinto la guerra civile, i bolscevichi dovettero retrocedere nella NEP. Nel passo che segue Lenin usa la similitudine di uno scalatore che deve tornare a valle dopo il primo tentativo di raggiungere una nuova vetta per descrivere cosa significa retrocedere senza tradire opportunisticamente la propria fedeltà alla Causa:

Immaginiamo un uomo che effettui l’ascensione di una montagna altissima, dirupata e ancora inesplorata.

Supponiamo che dopo aver trionfato di difficoltà e di pericoli inauditi, egli sia riuscito a salire molto più in alto dei suoi predecessori, senza tuttavia aver raggiunto la sommità.

Egli si trova in una situazione in cui non è soltanto difficile e pericoloso, ma addirittura impossibile avanzare oltre nella direzione e nel cammino che egli ha scelto. Egli è costretto a tornate indietro, a ridiscendere, a cercare altri cammini, sia pure più lunghi, i quali gli permettano di salire fino alla cima. La discesa, da questa altezza mai ancoraraggiunta su cui si trova il nostro viaggiatore immaginario, offre delle difficoltà e dei pericoli ancora maggiori, forse, dell’ascensione: è piú facile inciampare; si vede male dove si mettono i piedi; manca quello stato d’animo particolare di entusiasmo che dava impulso al cammino verso l’alto, dritto allo scopo, ecc. [.] E dal basso giungono voci piene di una gioia maligna. Gli uni gioiscono apertamente, lanciano urla, gridano: guardate, sta per cadere; gli sta bene; così imparerà a fare il folle! Altri cercano di nascondere la propria gioia, comportandosi per lo più alla maniera di Iuduscka Golovliov: assumono un’aria triste, levano gli occhi al cielo. Con nostro dolore, i nostri timori si avverano! Non siamo stati forse noi, che abbiamo dedicato tutta la nostra vita a preparare un piano ragionevole per l’ascensione di questa montagna, a chiedere un rinvio dell’ascensione, fino al momento in cui il nostro piano fosse stato elaborato definitivamente? E se noi abbiamo lottato tanto ardentemente contro il cammino che adesso lo stesso insensato abbandona (guardate, guardate, eccolo che torna indietro, che discende, che lavora per ore per prepararsi la possibilità di muoversi di un solo metro! Lui che ci ha lanciato le peggiori ingiurie quando chiedevamo sistematicamente moderazione e accuratezza!), se noi abbiamo condannato tanto ardentemente l’insensato e se abbiamo messo in guardia tutti affinché non lo imitassero e non lo aiutassero, l’abbiamo fatto esclusivamente per amore del grande piano di ascensione di questa stessa montagna, per non compromettere del tutto questo piano grandioso! (1)

Dopo aver elencato le conquiste dello Stato sovietico, Lenin passa quindi ad analizzare ciò che non era stato fatto:

Ma noi non abbiamo terminato neppure le fondamenta dell’economia socialista. Le forze ostili del capitalismo agonizzante possono ancora distruggercele. Bisogna rendercene conto nettamente e riconoscerlo apertamente, poiché non v’è nulla di più pericoloso che le illusioni (e la vertigine, soprattutto a grande altezza). E non v’è assolutamente nulla di «terribile», nulla che possa dare legittimamente adito al minimo scoraggiamento, nel riconoscere questa amara verità, poiché noi abbiamo sempre professato e ripetuto quella verità elementare del marxismo secondo cui la vittoria del socialismo richiede gli sforzi congiunti degli operai di più paesi avanzati. Ebbene, noi siamo ancora soli, e, in un paese arretrato, un paese più rovinato degli altri, abbiamo fatto più di quanto fosse credibile. Ma non è tutto: noi abbiamo conservato l’«esercito» delle forze proletarie rivoluzionarie, abbiamo conservato la sua «capacità di manovra», abbiamo conservato la chiarezza di spirito che ci permette di calcolare con sangue freddo dove, quando e come bisogna indietreggiare (per meglio saltare); dove quando e come bisogna propriamente riprendere il lavoro incompiuto.

Sicuramente perduti dovrebbero essere considerati quei comunisti che immaginassero possibile portare a termine – senza errori, senza ritirate, senza ripetuti rifacimenti di lavori incompiuti o mal realizzati – una «impresa» di portata storica mondiale come la costruzione delle fondamenta dell’economia socialista (particolarmente in un paese di piccoli contadini). Non sono invece perduti (e con tutta probabilità non lo saranno mai) quei comunisti che non si lasciano andare né alle illusioni né allo scoraggiamento, conservando la forza e l’elasticità del proprio organismo per «ricominciare daccapo» nuovamente la marcia di avvicinamento verso un obiettivo difficilissimo.(2)

La conclusione di Lenin – «ricominciare daccapo nuovamente» -mette in chiaro che non sta parlando solo di rallentare per consolidare le conquiste raggiunte, ma precisamente di scendere fino al punto di partenza: dobbiamo «ricominciare daccapo», non da dove siamo riusciti ad arrivare nel tentativo precedente. In termini kierkegaardiani, il processo rivoluzionario non è un processo graduale, ma un movimento ripetitivo, il movimento di ripetere l’inizio più e più volte. Ed è esattamente qui che ci troviamo oggi, dopo l’«oscuro disastro» del 1989.

Come nel 1922, le voci dal basso ci risuonano intorno con gioia maliziosa: «Vi sta bene, razza di folli che volevate imporre alla società la vostra visione totalitaria!» Altri provano a celare la loro gioia, borbottando e alzando gli occhi al cielo come a dire: «Ci addolora molto constatare che le nostre paure erano giustificate! Che nobile era la vostra visione di creare una società giusta! Il nostro cuore batteva per voi, ma la nostra ragione ci ha detto che i vostri piani potevano solo finire in miseria e in nuove forme di servitù!»

Rifiutando ogni compromesso con queste voci ammalianti, ora dobbiamo di certo «ricominciare daccapo». Non «continuare a costruire sulle fondamenta dell’epoca rivoluzionaria del Novecento» – che è durata dal 1917 al 1989, o, più precisamente, al 1968 – ma scendere al punto di partenza per scegliere una via diversa.

Per esempio, nel mio caso personale, è necessario rompere con ogni tipo di nostalgia per il modello jugoslavo di socialismo, concepito come più autentico della forma stalinista predominante nell’Europa dell’Est. Una tale nostalgia – radicata in un narcisismo di piccole differenze che si focalizzano su «qualcosa di speciale» – gioca esattamente lo stesso ruolo ideologico dei sogni di una «modernità alternativa» nella teoria postcoloniale: la sua funzione è di evitare qualsiasi analisi critica radicale delle ragioni del fallimento del comunismo novecentesco. Il punto non è di negare i momenti autentici del comunismo jugoslavo (la resistenza partigiana contro l’occupazione tedesca, la rottura con Stalin nel 1948 e perfino – fino a un certo punto – l’opposizione al socialismo di Stato), ma solo di riconoscere che queste caratteristiche non equivalevano in alcun modo a una genuina alternativa al socialismo di Stato.

[…]

Dobbiamo anche tenere a mente che il 1989 ha rappresentato la sconfitta non solo del socialismo di Stato, ma anche della socialdemocrazia occidentale. La miseria della sinistra odierna in nessun luogo è più evidente che nella sua difesa «di principio» dello Stato sociale socialdemocratico. In assenza di un progetto radicale attuabile, tutto ciò che la sinistra sa fare è bombardare lo Stato con richieste di espansione dello Stato sociale, sapendo benissimo che lo Stato non sarà in grado di farlo.

L’inevitabile delusione servirà allora a ricordare l’impotenza di base della socialdemocrazia e a spingere dunque la gente verso una nuova sinistra radicale e rivoluzionaria. Inutile dire che una tale politica di cinica «pedagogia» è destinata a fallire, dal momento che combatte una battaglia persa: nella presente costellazione politico-ideologica la reazione più probabile al fallimento dello Stato sociale sarà il populismo di destra. Per impedire questo sviluppo la sinistra dovrà presentarsi con un proprio progetto positivo che vada al di là di un semplice puntellamento dello Stato sociale. Questa è anche la ragione per cui è totalmente sbagliato riporre le nostre speranze negli Stati-nazione forti come difesa contro organismi transnazionali come l’Unione Europea che, così dicono, servono da strumento del capitale globale per demolire ciò che rimane dello Stato sociale. Da questa considerazione ad accettare un’«alleanza strategica» con la destra nazionalista che teme l’annacquamento dell’identità nazionale in un’Europa transnazionale il passo è breve.

I muri che stanno ora spuntando in tutto il mondo non sono dello stesso tipo di quello di Berlino, l’icona della guerra fredda. I muri di oggi non sembrano appartenere allo stesso concetto, dal momento che lo stesso muro presenta spesso molteplici funzioni: difesa contro il terrorismo, contro gli immigrati illegali, contro il contrabbando, copertura per appropriazioni colonialiste di terre ecc. Tuttavia Wendy Brown ha ragione a insistere che, nonostante questa apparenza di molteplicità, abbiamo qui a che fare con lo stesso fenomeno, anche se gli esempi non sono di norma visti come casi dello stesso concetto. I muri di oggi sono una reazione alla minaccia posta alla sovranità dello Stato nazione dai continui processi di globalizzazione: «Piuttosto che espressione risorgente della sovranità dello Statonazione, i nuovi muri sono icone della sua erosione. Se possono apparire come segni iperbolici di questa sovranità, come tutte le iperboli essi rivelano uno Stato tremolante, una vulnerabilità, incertezza o instabilità nel cuore di ciò che mirano a esprimere – qualità che sono in sé antitetiche alla sovranità e quindi elementi del suo disfacimento».(3) Ciò che colpisce è la natura teatrale e alquanto inefficiente di questi muri, che sono costruiti con materiali sorpassati (cemento e metallo), come contromisura comicamente medievale contro le forze immateriali della mobilità digitale e commerciale che in realtà minacciano oggi la sovranità nazionale. Brown ha ragione anche ad aggiungere all’economia globale la religione organizzata come principale agente trans-statale che costituisce una minaccia per la sovranità dello Stato.

Possiamo sostenere che la Cina, per esempio, nonostante abbia di recente riconosciuto che la religione è uno strumento di stabilità sociale, contrasta in modo feroce alcune religioni (il buddhismo tibetano, il movimento Falun) proprio perché le considera una minaccia alla sovranità e all’unità nazionale (buddhismo sì, ma sotto il controllo dello Stato cinese; cattolicesimo sì, ma i vescovi nominati dal papa dovranno essere selezionati dalle autorità cinesi).

La modalità più infida di falsa fedeltà al comunismo novecentesco è il rifiuto di tutti i socialismi reali in nome di qualche autentico movimento operaio che attende di esplodere. Nel 1983 Georges Peyrol scrisse una pièce intitolata Trenta modi di riconoscere a colpo sicuro un marxista vecchio stile,(4) una critica meravigliosamente ironica della tradizionale certezza dei marxisti che, prima o poi, un movimento operaio rivoluzionario risorgerà e spazzerà via il dominio capitalista insieme ai corrotti partiti e sindacati di sinistra. Frank Ruda (5) ha svelato che «Georges Peyrol» è uno degli pseudonimi di Alain Badiou: il bersaglio del suo attacco erano quei trotskisti superstiti che continuavano ad avere fiducia nel fatto che un nuovo e autentico movimento operaio sarebbe in qualche modo emerso dalla crisi della sinistra marxista.(6) Come uscire da questa impasse? E se ci arrischiassimo qui a fare un passo più in là e, insieme al rifiuto delle regole dello Stato e del mercato, rifiutassimo anche la loro ombra utopica, l’idea di una diretta regolazione «dal basso» del processo sociale di produzione, la controparte economica del sogno della «democrazia diretta» dei consigli?

Dove siamo allora oggi? Badiou ha descritto in modo memorabile la nostra situazione di stallo postmarxista come «questo torbido scenario, in cui si vede il Male danzare sulle rovine del Male».(7) Ogni nostalgia è fuori discussione; i regimi comunisti erano «malvagi»; il problema è che anche ciò che li ha sostituiti è «malvagio», sebbene in modo diverso. Ma in che modo? Nel 1991 Badiou fornì una formulazione più teorica della vecchia battuta sulla differenza fra l’Occidente democratico e l’Est comunista: nell’Est le dichiarazioni pubbliche da parte degli intellettuali sono attese con impazienza e hanno grande risonanza, anche se è loro proibito di parlare e scrivere liberamente; in Occidente possono dire e scrivere quello che vogliono, ma le loro parole sono in gran parte ignorate. Nella riformulazione di Badiou Est e Ovest sono opposti nei termini dei modi diversi in cui l’imperio della legge è situato tra i due estremi di Stato e filosofia. Nell’Est l’importanza della filosofia viene riconosciuta, ma solo in una forma direttamente subordinata allo Stato: qui il ruolo che legittima la filosofia è quello di giustificare lo Stato in quanto esso lavora direttamente in nome della Verità della Storia, che permette allo Stato di fare a meno dell’imperio della legge e delle libertà formali che questo garantisce.

In Occidente, al contrario, lo Stato è legittimato non dalla superiore Verità della Storia, ma attraverso elezioni democratiche garantite dall’imperio della legge. Come conseguenza, sia lo Stato che il pubblico sono indifferenti alla filosofia:

La subordinazione della politica al tema del diritto fa sì che nelle società a regime parlamentare [.] diventi impossibile distinguere il filosofo dal sofista. [.] Invece, nelle società socialiste burocratiche, è impossibile distinguere il filosofo dal funzionario, ossia dal poliziotto. Tendenzialmente la filosofia altro non è che la parola del tiranno.(8)

In entrambi i casi alla filosofia è negata la propria verità e autonomia, dal momento che «si dichiarano filosofi proprio coloro che in origine ne erano gli avversari, il sofista e il tiranno, o il giornalista e il poliziotto».(9)

Badiou non preferisce in alcun modo, né segretamente né apertamente, il Partito-Stato poliziesco allo Stato di diritto: afferma chiaramente che è pienamente legittimo preferire il secondo al primo. Ma qui traccia un’altra distinzione chiave: «La trappola consisterebbe nell’immaginare che una tale preferenza, che ha le sue ragioni nella storia oggettiva dello Stato, sia invece una decisione politica soggettiva».(10) Quello che intende con «decisione politica soggettiva» è un autentico impegno collettivo lungo linee comuniste (o emancipative radicali): un tale impegno non è «opposto» alla democrazia parlamentare, ma semplicemente si muove a un livello radicalmente diverso; e cioè, l’impegno politico non è qui limitato al solo atto di voto, ma comporta una fedeltà continua a una Causa, un paziente e collettivo «atto d’amore».

Quello che Badiou articola in termini teorici è confermato nell’esperienza quotidiana della maggior parte della gente comune: il collasso dei regimi comunisti non è stato un Evento nel senso di una rottura storica che ha dato vita a qualcosa di Nuovo nella storia dell’emancipazione.

Dopo la rottura le cose sono semplicemente tornate alla normalità capitalista, il che ricorda lo stesso passaggio dall’entusiasmo per la libertà al dominio del profitto  descritto da Marx nella sua analisi della rivoluzione francese.

Il caso di Václav Havel è esemplare: i suoi sostenitori rimasero scioccati nell’apprendere che il meticoloso paladino del «vivere nella verità» più tardi si invischiò in affari loschi con ambigue imprese immobiliari dominate da ex membri della polizia segreta comunista. Che ingenuo che è apparso Timothy Garton Ash nella sua visita in Polonia nel 2009, per celebrare il ventesimo anniversario della caduta del comunismo: cieco alla volgare realtà che gli stava attorno, cercava di convincere i polacchi che avrebbero dovuto sentirsi orgogliosi, come se la loro fosse ancora la nobile terra di Solidarnosc.

In Europa, sia all’Ovest che all’Est, ci sono segnali di una riorganizzazione a lungo termine dello spazio politico.

Fino a poco tempo fa questo spazio era in generale dominato da due partiti principali: un partito di centrodestra (cristiano-democratico, liberal-conservatore, partito popolare ecc.) e un partito di centrosinistra (socialista, socialdemocratico ecc.), con l’aggiunta di piccoli partiti che si indirizzavano a un elettorato più ristretto (ecologisti,liberali ecc.). Ciò che ora emerge progressivamente è uno spazio occupato, da un lato, da un partito che sostiene il capitalismo globale in quanto tale (di norma con un certo grado di tolleranza verso aborto, diritti degli omosessuali, minoranze religiose ed etniche ecc.), e dall’altro un sempre più forte partito populista opposto all’immigrazione (accompagnato ai margini da gruppi esplicitamente razzisti e neofascisti). Il caso esemplare è qui la Polonia: con la scomparsa degli ex comunisti, i partiti principali sono ora l’«anti-ideologico» partito liberale centrista del primo ministro Donald Tusk e il partito cristiano conservatore dei fratelli Kaczynski. In Italia Berlusconi è la prova che perfino questa opposizione finale non è insormontabile: il suo Forza Italia è sia il partito del capitalismo globale che quello della tendenza populista anti-immigrazione. Nella sfera depoliticizzata dell’amministrazione postideologica, il solo modo di mobilitare l’elettorato è suscitare paura (degli immigrati, del prossimo). Per citare Gáspár Miklós Tamás, ci stiamo dunque di nuovo avvicinando pian piano a uno scenario in cui «non c’è nessuno tra lo zar e Lenin», cioè in cui una situazione complessa è ridotta a una semplice scelta fondamentale: comunità o collettivo, socialismo o comunismo? O per dirla nei ben noti termini del 1968, affinché la sua eredità fondamentale sopravviva il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale.

Il movimento del Tea Party negli Stati Uniti non è forse la versione americana di questo populismo di destra, che sta progressivamente emergendo come la sola vera opposizione al consenso liberale? Il movimento del Tea Party presenta naturalmente alcune caratteristiche che sono specifiche degli Stati Uniti, e che ci permettono di predire con sicurezza che la sua ascesa sarà strettamente correlata all’ulteriore declino degli Stati Uniti come potenza mondiale. Più interessante è il conflitto tra l’establishment del GOP(11) e il Tea Party che sta già esplodendo qua e là: i dirigenti delle grandi banche si sono incontrati con i leader del GOP, che hanno promesso di bocciare la Volcker law(12) che limita il genere di speculazioni che hanno portato alla crisi del 2008; il Tea Party si è dato come primo compito quello di estendere i tagli fiscali concessi da Bush ai molto ricchi, aggiungendo così centinaia di miliardi di dollari al deficit che vuole abolire; ecc. Per quanto ancora funzionerà questa magistrale manipolazione ideologica? Per quanto ancora la base del Tea Party accetterà la fondamentale irrazionalità del suo programma di proteggere gli interessi della gente comune che lavora sodo privilegiando i «ricchi sfruttatori» e quindi letteralmente andando contro i suoi stessi interessi? É qui che comincia la lotta ideologica: la clamorosa irrazionalità delle proteste del Tea Party è una prova del potere dell’ideologia della «libertà dell’individuo contro l’interferenza dello Stato» che riesce a confondere perfino i fatti più elementari.

Oggi stiamo cominciando a pagare il prezzo di questo spostamento. In Grecia nel maggio 2010 grandi dimostrazioni si sono trasformate in violenza dopo che il governo ha annunciato le misure di austerità che dovrà adottare per rispettare le condizioni del piano di salvataggio imposto dall’Unione Europea per evitare il collasso finanziario. Due storie sono emerse durante questi avvenimenti: da una parte c’è la storia dominante dell’establishment dell’Europa occidentale, che irride i greci come un popolo corrotto, inefficiente, spendaccione e pigro, abituato a vivere dell’aiuto dell’Unione Europea, mentre dall’altra c’è la storia della sinistra greca, che ha visto le misure di austerità come un ennesimo tentativo da parte del capitale finanziario internazionale di smantellare le ultime tracce dello Stato sociale e di sottomettere lo Stato greco a suoi diktat. Se in entrambe le storie c’è un pizzico di verità (ed entrambe concordano nel condannare la corruzione della classe dominante greca), entrambe sono però fondamentalmente false. La storia dell’establishment europeo nasconde il fatto che il massiccio prestito concesso alla Grecia sarà usato per ripagare il debito del paese nei confronti delle grandi banche europee: il vero scopo della misura è quello di sostenere le banche, visto che se lo Stato greco va in bancarotta queste ne avvertiranno un serio contraccolpo. La storia della sinistra mostra ancora una volta la miseria della sinistra contemporanea: non c’è alcun contenuto positivo nella sua protesta, solo un rifiuto generalizzato di scendere a compromessi nella difesa dello Stato sociale esistente. (Per non parlare del suo glissare sullo spiacevole fatto che il grande debito della Grecia ha invero permesso i privilegi che la classe lavoratrice «comune» ha potuto permettersi).

Eppure tutti sanno che lo Stato greco non ripagherà mai e non potrà mai ripagare il debito: in un curioso gesto di finzione collettiva, tutti ignorano l’ovvia assurdità della proiezione finanziaria su cui si basa il prestito. L’ironia è che la misura potrebbe nondimeno avere successo nel suo obiettivo immediato di stabilizzare l’euro: ciò che importa nel capitalismo contemporaneo è che gli attori agiscano sulla base delle loro presunte credenze riguardo prospettive future,  indipendentemente dal fatto che credano in queste prospettive o le prendano sul serio.

Questo processo di costruzione fantasiosa va di pari passo con il suo apparente opposto: la naturalizzazione depoliticizzata della crisi e delle misure regolative proposte.

Queste misure non vengono presentate come decisioni fondate su scelte politiche, ma come necessità imposte da una logica economica neutra: se vogliamo stabilizzare l’economia, non c’è altra via che inghiottire l’amara medicina. Tuttavia, anche qui non dobbiamo lasciarci sfuggire il pizzico di verità che c’è in questo ragionamento: se rimaniamo all’interno dei confini del sistema capitalistico globale, allora queste misure sono certo necessarie; la vera utopia non consiste in un cambiamento radicale del sistema presente, ma nell’idea che si possa conservare lo Stato sociale all’interno di questo sistema.

In questo contesto il Fondo Monetario Internazionale appare da un punto di vista come un agente neutrale di ordine e disciplina, e dall’altro come un agente oppressivo del capitale globale. Entrambi i punti di vista contengono un elemento di verità: è difficile non vedere il modo superegotico in cui il FMI tratta i suoi Stati clienti – mentre li rimprovera e punisce per i debiti non pagati, allo stesso tempo offre loro nuovi prestiti che tutti sanno che gli Stati non saranno in grado di restituire, e così li trascina sempre più a fondo nel circolo vizioso del debito. D’altra parte la ragione per cui questa strategia superegotica funziona è che lo Stato debitore, pienamente consapevole che non dovrà mai veramente ripagare il debito, spera di ricavarne in ultima istanza un profitto. (Per non parlare del fatto che non c’è una vera via d’uscita da questo circolo vizioso: se uno Stato cerca di uscire dal patrocinio del FMI si espone al rischio del disordine di una spesa pubblica incontrollata che genera inflazione).

Si sente sempre più spesso dire che la crisi greca mostra non solo che l’euro è condannato, ma che lo è anche il progetto di un’Europa unita.

Ma prima di avallare questa affermazione generale dobbiamo aggiungere un giro di vite leninista: va bene, l’Europa è morta, ma quale Europa? La risposta è: l’Europa postpolitica dell’adattamento al mercato mondiale, l’Europa che è stata ripetutamente rifiutata ai referendum, l’Europa dei tecnocrati di Bruxelles, l’Europa che si atteggia a difensore della fredda ragione economica contro la passione e la corruzione greche, matematica contro pathos. Ma, per quanto possa apparire utopistico, c’è ancora uno spazio aperto per un’altra Europa, un’Europa ripoliticizzata fondata su un progetto emancipativo condiviso, l’Europa che ha dato origine alla democrazia dell’antica Grecia, alla rivoluzione francese e a quella russa. Ecco perché dobbiamo evitare la tentazione di reagire all’attuale crisi finanziaria ritirandoci nella difesa degli Stati-nazione sovrani, facile preda del volubile capitale internazionale che può semplicemente giocare a mettere uno Stato contro l’altro. Al contrario, la risposta deve essere ancora più internazionalista e universalista dell’universalismo del capitale internazionale. Il concetto di resistenza al capitale globale in difesa delle identità etniche particolari è più suicida che mai, con lo spettro grottesco dell’«idea di Juche» nordcoreana in agguato dietro le quinte.

Note:

  1. Vladimir Il’ic Lenin, Note di un pubblicista, in Opere complete, vol. XXXIII, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 183-184. Il testo di Lenin fu ripreso da Bertolt Brecht nel “Me-ti. Il libro delle svolte”, LA PARABOLA DI MI-EN-LEHDELL’ASCENSIONE DI ALTE MONTAGNE.
  2. Ivi, pp. 185-186.

3. Wendy Brown, Walled States, Waning Sovereignty, Zone Books, New York, 2010, p. 24.

4. 30 moyens de reconnaître à coup s–r un vieuxmarxiste, in Le Perroquet, 29/30, 1983.

5. Nella sua introduzione alla traduzione tedesca del saggio di Badiou Peut-on penser la politique? [Ist Politik denkbar?, trad. ted. di Frank Ruda e Jan Völker, Merve Verlag, Berlin, 2010].

6. Il colpo di Stato di Jaruzelski nel 1981 salvò anche Solidarnosc dalla delusione della sua profanazione politica: se gli fosse stato permesso di funzionare liberamente negli anni Ottanta Solidarnosc avrebbe perso la sua magia come forza nazionale e si sarebbe decomposto in fazioni politiche, ognuna delle quali avrebbe perseguito politiche pragmatiche sotto la leadership a maggioranza cattolico-conservatrice (che è appunto quello che è successo dieci anni dopo).

8. Alain Badiou, D’un désastre obscur. Essai sur la fin de la vérité d’etat, editions de l’Aube, La-Tour-d’Aigue, 1998, p. 33.

9. Ivi, p. 52.

10. Ivi, p. 53.

11. Ivi, p. 55.

12. GOP (Grand Old Party) è come viene spesso chiamato il Partito Repubblicano degli Stati Uniti.

13. Più nota come Volcker rule, è una parte del Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act proposta dall’economista americano Paul Volcker per impedire alle banche certi tipi di speculazione che non beneficiano i loro clienti.

Leave a Reply