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La lezione di Federico Caffè contro i privatizzatori

caffèMi sembra utile proporvi la lettura di una antica relazione del nostro grande economista. Negli anni ’80 il neoliberismo di Reagan e Thatcher cominciava a travolgere il welfare state e si affermava come ideologia dominante in tutti i paesi occidentali (Italia compresa). Purtroppo il diktat delle privatizzazioni (per indorare la pillola le chiamano liberalizzazioni) continua a essere ripetuto come un mantra dalla BCE fino ai quotidiani locali. La lezione di Federico Caffè è quanto mai attuale. 

 Per una riconquistata socialità

Relazione tenuta Prof. Federico Caffè nel corso della 3ª Conferenza economica nazionale CISPEL “I servizi pubblici locali nella società e nell’economia”, Firenze 24-26 novembre 1986

1. Diverse volte, nella vita civile del nostro Paese, è risuonato il richiamo di rivolgersi alla storia. E anche oggi, malgrado i ripetuti inviti a pensare in termini postindustriali, postmoderni o l’opposta ma ugualmente ambigua designazione di alcuni aspetti della nostra vita istituzionale come premoderni, mi sembra che risulti utile non disperdere il significato delle radici storiche di forme differenziate di culture, di metodi organizzativi, di sforzi di miglioramento sociale, e ciò proprio in un momento in cui la crescente interdipendenza tra i vari paesi e la rapidità delle forme di comunicazione sul piano mondiale tendono verso un processo generale che può essere, al tempo stesso, di interpenetrazione, ma anche di insidioso e gratuito assoggettamento imitativo.

Non sono in grado di distinguere quanta parte di queste considerazioni sia dovuta a ragioni psicologiche di carattere anagrafico, o ai convincimenti tratti dalla sedimentazione delle letture fatte. Di certo, mi è difficile tacere che avverto con un sentimento di profondo fastidio il fatto che venga utilizzata come un indice di ammodernamento l’incrinatura che “l’aprire al privato” arreca alla immagine di istituzioni secolari dovute, pongasi, alla munificenza di sapienti pontefici nel combattere l’usura, o all’azione di tipo economico suggerite da accorti consiglieri a principi illuminati, o alla penetrazione di istanze di solidarietà e partecipazione nella concezione stessa dello stato democratico.

Tra i dualismi che contraddistinguono non soltanto la struttura economica del nostro paese, ma la sua stessa vita culturale, vi è anche quello tra coloro che diedero i contributi più apprezzati all’avanzamento della indagine economica e i protagonisti dell’intervento pubblico. Intendo dire che la sfiducia pregiudiziale nei confronti del raggiungimento di obiettivi economici con mezzi di azione collettivi ha origine ben più remota dei disavanzi degli anni settanta, o dell’inquadramento gerarchico corporativo, o delle irruenze del “Bolscevismo italiano”, per usare un titolo purtroppo di Maffeo Pantaleoni. Se persino Quintino Sella sentì la necessità di reagire al discredito aprioristico che veniva espresso nei confronti di organismi pubblici non ancora sorti (le casse di risparmio postali), ribadendo il proprio apprezzamento per uno Stato in cui la “virtù collettiva sia in onore”, le cause prime di una insidiosa incomprensione debbono ben essere radicate e profonde, anche se ingiustificate.

Comprendo che queste mie premesse possano apparire elusive o estrinseche. Ma, in realtà esse trovano motivo nell’affermarsi di un atteggiamento di tipo difensivo e di una crisi di legittimazione che sembra investire l’intero comparto dell’economia pubblica e, nel suo ambito, dei servizi pubblici locali. Penso che a darne ragione non siano soltanto problemi di efficienza e di economicità: quando essi fossero risolti nel modo migliore, sorgerebbero problemi di preteso “spiazzamento”, o doglianze di asseriti favoritismi. Ancora una volta si ripropone l’esigenza che, nell’assetto sociale, anche “la virtù collettiva” sia in onore. Ma, per il momento premono i problemi della efficienza e della economicità ed è del tutto appropriato il porli al centro dell’attenzione, al pari di quelli del finanziamento.

2. E’ sul piano della concretezza quindi, anziché nell’ambito di una presunta desiderabilità della estensione del “privato” e del ridimensionamento del “sociale”, che va considerato – a mio avviso – il compito specifico dei servizi pubblici nell’ambito dell’odierno assetto produttivo. Ma se il dubbio sulla cosiddetta crisi dello “stato sociale” è diventato ormai talmente penetrante e diffuso che il non soffermarsi potrebbe sembrare eludere un problema cruciale, può valere la pena di dedicarvi qualche osservazione.

Il primo aspetto è quello che porrei sotto l’etichetta delle “voci del passato”: le quali confermano, come ho avuto occasione di scrivere, “l’impossibilità di trasformare in limite oggettivo, ciò che corrisponde sostanzialmente a uno stato d’animo”. Prendendo come punto di riferimento Luigi Einaudi, per tutto quello che ha rappresentato per la cultura e per la pubblicistica italiana, egli già in sede di esame del progetto ministeriale su “La Municipalizzazione dei servizi pubblici” (8 aprile 1902), riflette una corrente di pensiero – cauta, perplessa, circospetta, nell’insieme tutt’altro che incoraggiante, anche se non ostile – dei ceti intellettuali italiani. Se l’on. Giolitti si era preoccupato, nella relazione al disegno di legge, di raccogliere dati sulle municipalizzazioni all’estero (Inghilterra, Stati Uniti, Germania), Einaudi non manca di osservare che “come al solito, dopo molto discutere, fautori ed oppositori sono rimasti ciascuno dell’opinione di prima”. Aggiunge (a scanso di possibili equivoci) “nella municipalizzazione il socialismo ha ben poco da fare. Mercanti accorti e tipicamente individualistici, in tutta la pratica della loro vita, come gli inglesi, hanno municipalizzato il gas o l’acqua potabile, non per voler fare degli esperimenti di socialismo, ma semplicemente perché hanno creduto di fare un buon affare”. Infine, vengono messe in luce eventualità di cui la municipalizzazione, pur libera in linea di principio, diverrebbe di fatto coattiva, costituendo “un salto nel buio”. Nel febbraio 1903, sulla base di una indagine statistica promossa da “La Riforma Sociale” e curata da uno studioso eminente quale Riccardo Bachi, egli (pur sollecito nel precedente articolo nel porre in guardia dal trarre conclusioni frettolose sulla base di esperienze limitate) afferma che, tenendo conto dei risultati della inchiesta, “i municipi italiani sono ben lungi dal gestire le imprese municipalizzate con quei criteri contabili che soli possono permettere di istituire confronti e ricavare conclusioni attendibili”. E ciò anche perché “talvolta i comuni medesimi, per difendere la municipalizzazione, fanno dei confronti grotteschi. Altri pungenti rilievi critici riguardano progetti di municipalizzazione di Torino (luglio 1904) e “Il pane municipale di Catania”. Una discussa iniziativa, quest’ultima, promossa dall’On. De Felice e a proposito della quale Luigi Einaudi ha alte parole della sua innata saggezza: “E’ da augurare che a Catania lo spirito civico si innalzi e si mantenga vivo abbastanza da preservare questa prima intrapresa municipale dai malanni dell’indifferentismo, della burocrazia e delle condiscendenze popolaresche che furono in passato i tarli roditori di tante consimili nobili iniziative” (5 febbraio 1905).

Se mi sono riferito ripetutamente a Luigi Einaudi, nella profonda consapevolezza di tutto quello che gli dobbiamo, è per ricordare, da un lato, il contributo critico ed ammonitore dei nostri grandi maestri del passato nei riguardi dello “stato sociale” nel nostro paese; dall’altro, quanto sia tuttora carente il nostro debito di riconoscenza verso coloro che, pur condividendo dubbi, perplessità e non nascondendosi realisticamente le difficoltà alle quali avrebbero dovuto far fronte, preferirono tentare, intraprendere, organizzare. Basterà ricordare Giovanni Montemartini, del quale un suo recente ed acuto biografo ha creduto di riscontrare un intimo dissidio fra “il freddo ragionamento” dell’impostazione di teoria positiva sulla quale “analizza con estremo acume il funzionamento effettivo dei meccanismi finanziari pubblici, rilevandone tutte le debolezze”, e la parte normativa della sua indagine nella quale prevalgono le aspirazioni, le speranze e forse l’illusione di Montemartini (Da Empoli). Una distinzione filologicamente documentata che tuttavia, ha il torto di non tener conto – ma a rilevarlo è stato un poeta, non un economista – che per fare qualcosa nella vita (e Montemartini oltre che un teorico fu un realizzatore) “occorre essere appassionati”.

3. Sottolineare che questa contrapposizione tra “privato” e “pubblico” costituisce una costante della nostra vita civile non significa rimanere ancorati al passato, o non tener conto delle esigenze dei tempi attuali: vuole ricordare che, nel passato come nel presente, la edificazione o la preservazione dello “stato sociale” ha in sé un valore di testimonianza, oltre che essere espressione di capacità tecniche. Il compito non lieve, che si modifica di continuo nel tempo ma al quale occorre costantemente far fronte, è che i giustificati richiami alle mutevoli ma sempre pregiudizievoli forme di indifferentismo non offuschino il significato durevole ed adattabile di questa testimonianza. Essa ha un significato molto ampio, in quanto investe l’intera sfera dei rapporti tra interesse pubblico e privato. Proprio di recente, con riferimento alla fruizione e alla conservazione dei beni culturali (di cui la città di Firenze è così prodigiosamente dotata) si è affermato con forza, ed autorevolmente che “non vi sarà riscatto culturale né bonifica urbanistica se i suoli urbani non saranno demanializzati.. Non può farsi della città un bene culturale di pubblica utilità finché la città sarà oggetto e strumento di lucro privato” (Giulio Carlo Argan).

La legittimità del lucro non va posta in discussione, ma nemmeno la categoria della “pubblica utilità” richiede difese nei confronti di vecchi o nuovi appelli alla “magia del mercato”.

Come sempre, sta in noi se subire o reagire agli idoli del mercato. Le argomentazioni di una pacata reazione mi sembrano essere di un duplice ordine.

In primo luogo, non si deve credere che un discorso come quello della “magia del mercato”, per il solo fatto di essere fortemente propagandato, abbia un sicuro crisma teorico e goda di una indiscussa accettazione, anche in una economia come quella degli Stati Uniti d’America. La comprensibile preoccupazione di evitare gli sperperi e di assoggettare a riesame i servizi di quelle forme di pubblico intervento che si è convenuto assumere come proprie dello stato sociale non comporta in alcun modo il ripudio della democrazia economica e la rinuncia a rendersi conto delle sperequazioni esistenti sul terreno della distribuzione della ricchezza. In secondo luogo, proprio da una considerazione attenta della letteratura recente, il concetto di uguaglianza risulta arricchito, in ragione della maggiore complessità che esso assumerebbe, nella forma appunto di “complex equality”, che riconoscerebbe l’esigenza della diversità, una volta che sia eliminata una gamma inaccettabilmente ampia tra posizioni di privilegio e di povertà. E se questo vale per gli Stati Uniti d’America, non dovremmo di certo evitare di tenerne conto nelle condizioni di “complessa disuguaglianza” che prevalgono nel nostro paese. In definitiva, proprio per aver appreso, attraverso le lezioni della storia, la radicata sfiducia aprioristica che nel nostro paese ha associato tanto spesso il concetto di “pubblico” con quello di “inefficiente”, non dovremmo lasciarci intimidire da tendenze politiche imitative, spesso interpretate in modo arbitrario e selettivo. Penso che un meditato esame dei nostri problemi dello stato sociale sia desiderabile e possibile, nella misura in cui l’eliminazione degli sperperi e l’utilizzazione più efficiente delle risorse tragga incentivo dalla consapevolezza delle esigenze nuove basilari ancora insoddisfatte e non da concezioni di mitico e datato provvidenzialismo.

4. Se si fosse effettivamente in presenza di una “ritirata intellettuale” (Cassese) nei confronti del ruolo dell’azione pubblica nella sfera economica, l’arretramento non si verificherebbe nei riguardi di una determinata istituzione giuridica, o di determinate forme di organizzazione, ma nei confronti del concetto stesso di democrazia. Ma, in realtà, come ha avuto occasione di affermare di recente un economista a noi tutti caro, Paolo Sylos Labini, “una volta abbandonati i pregiudizi ideologici in base ai quali deve essere tutto pubblico o magari tutto privato, si tratta di trovare l’optimum, che non è fisso per sempre e non è uguale per tutti i paesi. Questo problema di ottima composizione di privato e di pubblico ( … ) deve essere studiato spregiudicatamente, prima sul piano intellettuale e critico, per poi trovare la strada del compromesso, assai più difficile, sul terreno politico”. In un certo senso, con riferimento alla categoria dei servizi pubblici degli enti locali, è questo studio da svolgersi sul piano intellettuale e critico che si compie, attraverso l’esame dei molteplici aspetti che vi sono coinvolti. Senza interferire sui compiti altrui, può essere consentito soffermare ulteriormente l’esame su quelli che considero i “tarli roditori” che, nella fase odierna, insidiano il ruolo dei servizi pubblici nell’economia e nella società.

5. Un primo “tarlo roditore” mi sembra quello di delineare i nostri disegni in senso lato razionalizzatori, trascurando – come ha scritto con la finezza a lui consueta uno dei maggiori economisti dell’ateneo fiorentino, Giacomo Becattini, l’inadeguatezza delle nostre conoscenze, particolarmente sul piano psicologico e dei comportamenti soggettivi, ai fini della “trasformazione consapevole” delle società umane (v. G. Becattini: L’economista e la “trasformazione consapevole” della società. “Rassegna economica”, novembre dicembre 1978; p.p. 1275-1291). Intendo dire, utilizzando ancora le parole di Becattini, che non occorre perdere di vista “l’interdipendenza fra gli aspetti economici e quelli socio-culturali, per creare un comune terreno di ricerca e di civile colloquio fra studiosi che, diversi per estrazione ideologica ed impostazione metodologica, concordino sulla opportunità di sottrarre il sistema dei rapporti sociali alla accidentalità del suo funzionamento attuale” (v. ivi, p. 1291). E’ in questo contesto più ampio, che mi sembra vadano considerati sia alcuni meccanismi razionalizzatori di incentivazione – disincentivazione (pongasi, tra trasporti privati e pubblici), sia alcune rivendicazioni di autonomia gestionale, alle imprese di pubblici servizi, sia – soprattutto – alcuni convincimenti in un ruolo quasi demiurgico della “imprenditorialità“.

Ho l’impressione che l’accentuazione neo-schumpeteriana che va manifestandosi sull’elemento della imprenditorialità – ed è ovvio che il rilievo ha carattere generale e non si riferisce specificamente al settore in esame – incorra per lo meno nel rischio di trascurare due circostanze. La prima è quella di ripetere, con riferimento appunto all’imprenditorialità, quella polarizzazione acritica in un unico fattore trainante che non molti anni or sono associò i problemi dello sviluppo in generale all’immissione nel sistema di accresciute dosi di capitale. Sembrava che bastasse seminare capitale, se posso esprimermi in questi termini, per raccogliere sviluppo. Non si è tardato ad avvertire quanto di incompleto vi fosse in una concezione del genere, che pure non mancò di essere largamente ripetuta e debitamente formalizzata. La seconda circostanza è che, nelle condizioni contemporanee, l’imprenditorialità più che giovarsi del supporto creditizio-finanziario, ne è succube, strumento e, al limite, vittima. Ritengo che sia necessario una buona dose di ingenuità per ritenere, che sul piano interno, come sul piano internazionale, gli sviluppi finanziario-borsistici in atto siano indice di una evoluzione soddisfacente e densa di promesse, come spesso si crede.

Potrebbe ben trattarsi, anche se sono il primo a non augurarmelo, di una monotona ripetizione di quei ricorrenti processi attraverso i quali (nelle espressioni di Bageot riprese da Kindleberger) “un gran numero di stupide persone dispone di una grande quantità di stupido denaro, alla ricerca di chi lo divori” (Ch. P. Klindeberger: Manias, Panics and Crashes. A History of Financial Crises, Macmillan, London, 1978).

Poiché è chiaro che sono in grado di fornire un’esperienza di vita e non un contributo di carattere specialistico (anche se sono lieto di aver ritrovato quali funzionari della Cispel antichi miei studenti, dotati di rilevante flessibilità mentale per poter impadronirsi di non semplici intricatezze specialistiche), debbo confessare di essere rimasto piuttosto turbato dall’invito rivolto alle aziende municipalizzate di contrarre direttamente mutui senza l’intervento dell’ente locale di appartenenza. Non intendo interferire sui problemi estranei al carattere del tutto generale di questa esposizione: ma non vedo perché debba astenermi dall’osservare che un invito del genere va accolto con cautela: cautela suggerita appunto da una esperienza di vita la quale in ripetute occasioni ha consentito di rilevare che profferte di credito avanzate in momenti di ampia disponibilità non escludono inversioni di atteggiamenti che sopravvengono proprio in momenti meno agevoli per il soggetto debitore.

In definitiva, il problema delicato in cui si riflette il carattere sociale della istituzione è quello della precaria armonizzazione degli equilibri contabili e delle esigenze umane. A questa armonizzazione potrebbe contribuire una definizione più particolareggiata di tipo bilaterale tra ente locale e impresa dei servizi pubblici, qualora il primo potesse assumersi come ragionevolmente rappresentativo delle esigenze della utenza. Purtroppo, la forma di democrazia nella quale viviamo da un quarantennio, sembra rendere indispensabile un rapporto di tipo triangolare, nel quale l’utenza figuri direttamente in quanto tale. Un tramite di informazioni, da organizzarsi in forme adatte ma con carattere sistematico e durevole, potrebbe fornire un contributo non indifferente alla eliminazione delle inefficienza, incluse quelle che si manifestino in diffuse e irragionevoli forme di ingerenza dall’alto, in una gamma estremamente estesa di livelli. Quello che intendo dire, ancora una volta è di usare cautela nel ritenere che l’inventiva à la page, cancelli la saggezza di antichi moniti. Quando Einaudi parlava di “malanni dell’indifferentismo” con riferimento alle prime imprese municipalizzate, egli alludeva a una mancanza di partecipazione che risulta dannosa sia che si manifesti nell’azionista dormiente di una società azionaria di carattere strettamente privato (tanto da avervi dovuto porre rimedio), sia che si manifesti nell’impresa pubblica, per la mancata inclusione nel suo assetto di una voce organizzata della utenza.

6. Un secondo “tarlo roditore” è costituito, a mio avviso, da una non risolta contraddizione tra la potenzialità riconosciuta all’imprenditoria pubblica, al punto di prospettarne una unificazione centralizzatrice sul piano delle relazioni industriali, e l’indicazione che le aziende che vi rientrino debbano ispirarsi a criteri di gestione di tipo privatistico. Perdura in tal modo un equivoco che ha avuto la maggiore e più deleteria manifestazione nel sistema delle partecipazioni statali, ma sembra esercitare un incontestabile contagio anche nei confronti delle aziende che provvedono ai servizi pubblici degli enti locali. Peraltro, nel sistema delle partecipazioni statali, l’ambiguità era intrinseca alle sue stesse origini, ha contraddistinto la sua evoluzione nel tempo e ne caratterizza il modo di essere attuale: persino con contorsioni lessicali, come le “dismissioni” che mirano a dare sembianze nuove a tendenze antiche, di cui è stato vano sollecitare la trasparenza anche con riguardo all’ormai remoto periodo corporativo. Ma il settore municipalizzato, nel significato più comprensivo, dispone di una tradizione dottrinale di alto prestigio, anche negli aggiornamenti che vi sono stati via via apportati, e che sarebbe opportuno mantenere al riparo da commistioni spurie.

Mi sembra che questo tanto sbiadito, amorfo e immemore quarantennio della Repubblica abbia ancora un limitato margine di tempo per chiudersi nel segno di una riconquistata socialità. Se questa aspirazione fosse indice di un “reducismo” non immemore delle attese e delle speranze suscitate dalle straordinarie testimonianze di un La Pira o di un Dossetti, non potrei di certo sentirmene mortificato; come considero un titolo di onore il significativo rimprovero rivoltomi, da Antonio Pesanti perché il problema dell’intervento pubblico dell’economia fosse da me considerato “in un modo ben più asessuato di quanto lo vedeva, pur tanti anni fa, il compianto Alberto Breglia”. Il mutare delle tecnologie e le trasformazioni della economia mondiale non comportano il ripudio di radicati valori che hanno improntato l’intera esistenza di un individuo. Si può porre, e l’ho già indicato, il quesito se tutto questo non sia che una espressione di reducismo intellettuale. Ma, fortunatamente, le cose non sembrano essere in questi termini. Di recente, due giovani ed acuti studiosi, proprio con riguardo al settore delle partecipazioni statali in cui esiste – come si è ricordato – una congenita ambiguità tra privato e pubblico, hanno con serrate argomentazioni confutato le tesi alla cui affermazione concorrono tendenze imitative, equivoci interpretativi e interessi sezionali che hanno piena legittimità di esercitare le loro pressioni, purché non pretendano di essere depositari della scientificità. Sergio Ginebri e Laura Pennacchi hanno appunto rigorosamente documentato che “non ha fondamento analitico anche nel caso delle imprese di proprietà pubblica, la assunzione – la quale, viceversa, pretende quasi affermarsi con l’imperiosità di un luogo comune – che identifica il pubblico con l’inefficienza e lo spreco delle risorse” (S. Ginebri e L. Pennacchi: Impresa pubblica uguale inefficienza?, Politica ed Economia, n.7-8, 1986 p. 76).

Vi è dunque, a quanto pare, la possibilità che lontane speranze e mitiche attese rinverdiscano in nuovi sforzi intellettuali che reagiscano, con sagacia e impegno di documentazione, alla imperiosità dei luoghi comuni.

Tutto questo non vuole significare, con riferimento ai servizi pubblici degli enti locali che più direttamente interessano, né una permissiva indulgenza ai disavanzi, né il disconoscimento delle benemerite attività svolte per individuare le inefficienze, per stabilire rapporti privi di confusione tra l’ente pubblico e l’impresa operativa e per una revisione meditata sia sul piano della legislazione come su quello delle gestioni. Tuttavia non sembrerebbe priva di importanza che questa fosse considerata come espressione di una valida opera sociale di assistenza tecnica, anziché come un accostamento all’operare d’altronde altamente discutibile per molti aspetti, come è ben noto, della imprenditorialità privata.

In un momento di difficili rapporti tra le forze politiche e la società civile, in un momento in cui la denigrazione di ciò che è pubblico si traduce di per sé in una disaffezione verso le istituzioni, ci sembra che il richiamo insistente ad una autonoma imprenditorialità, anziché costituire un modo indiretto per il rafforzamento delle istituzioni, come verosimilmente è negli intendimenti, finisca per costituire una manifestazione di presa di distanza, di prudenziale distacco dalle istituzioni stesse. La socialità, in altri termini, non dovrebbe costituire una specie di reverenza d’uso che si consideri di dover fare, di tanto in tanto, dopo aver sostanzialmente avallato, in varie forme, il triste connubio tra pubblico e inefficienza. Tutto quello che viene compiuto per incrementarla e per il rientro da non giustificati disavanzi deve essere espressione di una operante, fattiva, convinta socialità: di una socialità in azione, che trova in sé stessa, non in modelli western-capitalistici, i propri criteri ispiratori e le proprie realizzazioni pratiche, le proprie forme di scambievole collaborazione.

7. Sorte come forme di diffusione della democrazia al livello locale, le imprese che provvedono a fornire servizi pubblici non dovrebbero ignorare che questa loro funzione storica – particolarmente necessaria in un periodo come quello che il nostro paese sta attraversando e in cui appare veramente difficile non rendersi conto delle tendenze autoritarie in atto – non si realizza con procedure di separatezza, ma con un processo di maggiore coinvolgimento, partecipazione ed elevazione del livello di consapevolezza civica degli operatori. Parte integrante dell’addestramento professionale è che, se il miglioramento dei servizi può incontrare limiti finanziari, la necessità di informazione, di comunicazione, di ripudio da inclinazione di tipo qualunquistico ne risulta a maggior ragione rafforzata. Come l’accrescimento della efficienza, se può contribuire a ridurre i disavanzi contabili, non si traduce necessariamente in un miglioramento dei servizi resi; così questi ultimi devono coesistere con un più diffuso spirito civico, non con il diffondersi di un autoritarismo strisciante.

Allargare lo sguardo oltre i problemi immediati che ci interessano più da vicino non costituisce un modo di eluderli, ma può significare acquistare la prospettiva necessaria per comprenderli più adeguatamente.

Come ebbe a dire Robert Kennedy se si perde il senso del ghetto (noi potremmo più pertinentemente parlare del senso della emarginazione), si perde il senso della comunità. Di fronte ai milioni di pendolari giornalieri, di fronte alla carenza di alloggi a prezzi accessibili, di fronte alla lancinante utilizzazione di lavoro minorile e di giovani costretti a trasformarsi in trottole umane per un recapito sollecito di corrispondenza (di cui si sottolinea l’efficace spontaneismo, con assoluto disinteresse per l’erosione umana); di fronte a questo e a tutto l’altro che potrebbe aggiungersi, si vorrebbero prospettare per il nostro paese destini neo rinascimentali (magari per la sua inclusione nel gruppo dei sette grandi), considerando come rancorosa ogni testimonianza sulle tremende forme di emarginazione ancora esistenti, ma in realtà perdendo il senso stesso della comunità. Ora a me sembra che una indicazione asettica, pongasi, del grave disavanzo finanziario nelle imprese di trasporto locale, senza alcun riferimento al doloroso carico giornaliero di frustrazioni o di stanchezza umana, che è appunto testimonianza non di una minoranza rancorosa ma di una diffusa e sofferta emarginazione, finisca appunto per far perdere il senso della comunità. E mi auguro che questo sia considerato non tanto come attaccamento a una tesi – che lo Stato sociale sia qualcosa da costruire e non da scrollarci di dosso – ma quanto, come ribadita conferma del processo involutivo verso il quale ci spinge il forte orientamento conservatore del mondo capitalistico contemporaneo. Non sono mancati spiriti profetici che, invece di lasciarsi affascinare dal millenarismo tecnologico come affrancatore dei nostri assillanti problemi sociali, ne avevano previsto un inevitabile aggravamento. Come Joan Robinson scriveva sin dal 1972 “Non solo la miseria dei poveri non è mai sconfitta dalla crescita, ma la povertà in assoluto ne risulta accresciuta. L’espansione economica richiede progresso tecnico e il progresso tecnico altera la composizione delle forze di lavoro, aumentando la disponibilità dei posti per la manodopera qualificata, mentre le possibilità di acquisire una qualificazione rimangono appannaggio di quella fascia sociale che già poteva accedervi, salvo rare eccezioni, quando esistono doti fuori dal comune. Mentre la crescita avanza al vertice chi resta indietro è respinto alla base in forma sempre più forte (Joan Robinson “La seconda crisi della teoria economica”, (1972) trad. it. 1975, p. 109 seg.)

Più di recente, un economista di alta reputazione, A. Lindbeck, ponendosi l’interrogativo di non poco peso sulle possibilità di sopravvivenza del capitalismo, ne vedeva una delle condizioni nel fatto che “le forti tendenze alla fusione delle imprese, lo sviluppo di conglomerati sempre più potenti, la pratica delle amministrazioni interconnesse’ nel settore societario dovrebbero essere arrestate e rovesciate. “Personalmente (è Lindbeck che parla) sarei fortemente favorevole allo smembramento delle grandi società e delle concentrazioni di capitali nelle economie mondiali in unità di modeste dimensioni” (A. Lindbeck: Can Pluralism Survive? The University of Michigan 1977, p. 195.) Ognuno può rendersi conto di quanto la realtà contemporanea sia discosta da questi ideali di un economista che, in circostanze diverse ma sostanzialmente analoghe, Alberto Bertolino ebbe pungentemente a definire come espressione di “romanticismo economico”. Ma se la realtà dell’odierno capitalismo finanziario internazionale fa necessariamente considerare irrealistici ideali del genere, nemmeno la razionalità può identificarsi in mere forme imitative di assetti ritenuti esemplari soltanto perché realizzati da potenze egemoni. Perdere il contatto con le proprie radici storiche, anche in una pretesa scissione tra efficienza e socialità o in una paretiana illusione che la realizzazione della prima conduca di per sé alla seconda, non determina balzi oltre le Alpi o oltre l’Atlantico. Ma, come ci ha insegnato Benedetto Croce, può, al più, essere espressione di un mito: che (sono sue parole) “come sempre i miti, ora indirizza ora svia, ora anima ora deprime, ora arreca vantaggi ora danni; ( … ) in ultima analisi, “nega o sfigura i fatti, e, insomma, non li lascia intendere bene” (B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 Laterza Bari, 1943, p. 41). E ognuno, nel suo intimo, può controllare se in una democrazia zoppa come la nostra che di per sé è portata a una congenita sfigurazione dei fatti, non si tratti di un insegnamento sul quale convenga sempre riflettere.

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